Alla fine la Conferenza planetaria sul clima ha partorito il classico topolino: a Copenaghen non c’è stato nessun vero accordo chiaro, preciso e vincolante.
Quando si parla d’inquinamento, tutti sono d’accordo a condannarlo, ma poi, quando si tratta di mettere la mano nel portafogli per pagare la diminuzione delle emissioni di gas inquinanti, tutti si girano dall’altra parte.
È questa la sintesi delle conclusioni della tanto attesa Conferenza sul clima: una conclusione che mette l’accento sulla necessità di lottare genericamente contro le emissioni inquinanti e di rinviare alla metà del 2010 l’appuntamento per tradurre l’accordo politico in procedure, modalità e cifre vincolanti. È comunque un auspicio, non un impegno preciso.
I giornali hanno parlato di un “piccolo accordo per salvare la faccia” e per mascherare il fallimento.
Ma perché Copenaghen da appuntamento di svolta è scaduto a un mezzo fallimento? La Cina, e anche l’India e vari altri Paesi ad economia emergente, hanno capito l’importanza della lotta contro l’inquinamento, ma il fatto positivo si ferma qui. Non vogliono vincolarsi a scadenze precise, a misure certificate, a traguardi da raggiungere in tempi stabiliti.
Vogliono essere liberi di fare quello che vogliono, anzi, pretendono che a diminuire le emissioni siano solo i Paesi industrializzati, i quali, per giunta, dovrebbero finanziare le costose tecnologie contro le emissioni di Co2.
Gli Stati Uniti, d’altra parte, che con la Cina e l’India sono i più grandi produttori di inquinamento, non vogliono pagare l’inquinamento degli altri, oltre che quello proprio, e non possono, in tempi di difficile crisi economica, impiegare ingenti risorse per l’inquinamento, preferendo rilanciare l’economia per uscire dalla crisi.
Il pianeta e la sua salute possono aspettare. Dunque, nessun accordo vincolante, solo la presa d’atto che ognuno si regolerà come meglio crede e che l’obiettivo a lunga scadenza, il 2050, è la diminuzione dell’80% delle emissioni. Dunque, un non accordo che dà a tutti la possibilità di fare quello che vogliono, cioè probabilmente di non fare nulla, almeno nei mesi ed anni più immediati.
In fondo, alla Cina, all’India e agli altri Paesi emergenti, ma anche agli Usa sta bene così. Ad essere più precisi gli Usa avrebbero anche finanziato il costo delle diminuzioni di emissioni in Cina e altrove, ma questi Paesi hanno rifiutato i controlli. Volevano soldi e tecnologia senza contropartita.
E l’Europa? I ventisette l’anno scorso erano partiti in quarta, c’era la corsa al rialzo delle percentuali da raggiungere entro il 2020: il 30% delle emissioni, poi sceso al 20% in seguito all’opposizione dell’Italia. Anche a Copenaghen l’Europa voleva fare la prima della classe, ma, per la mediazione dell’Italia, è riuscita a bloccare cifre, date e percentuali in attesa dell’intesa tra i grandi.
Insomma, perché puntare in alto se i grandi inquinatori non fanno nulla? Che senso ha per l’Europa indicare impegni precisi e vincolanti se poi i grandi inquinatori non ne vogliono sapere? È purtroppo quello che si è verificato. L’Italia ha proposto una mediazione valida, senza demagogia, ma stando coi piedi per terra.
Calato il sipario su Copenaghen, la politica internazionale segna il passo, non si vedono buone notizie, anzi, le brutte continuano a tenere banco.
Lanciata la nuova strategia in Afghanistan, in attesa dei risultati, il mondo guarda indietro, all’Iran, che negli ultimi tempi sta facendo sorgere più di una preoccupazione.
La prima è la dichiarazione dell’Ayatollah Alì Khamenei, la Guida Suprema, che ha detto che l’opposizione dovrà essere eliminata. Già questo basterebbe per far crescere l’allarme. La protesta popolare sta per essere vinta con il carcere, le torture e le impiccagioni. Ora si passa ai capi, direttamente minacciati dalla Guida Suprema, che evidentemente è il deus ex machina delle elezioni che hanno dato la vittoria – gli oppositori dicono manipolata – all’attuale presidente e alla sua politica.
La seconda è lo stallo nella trattativa sull’uranio arricchito. Ormai il risultato è chiaro anche ai più benevoli: l’Iran non vuole nessun accordo, nessun controllo, nessuna trattativa seria. Marcia verso la costruzione di centrali nucleari a scopi civili – e fin qui nulla di male – ma marcia soprattutto a tappe forzate verso la costruzione della bomba atomica, con tutte le conseguenze che per l’intera regione saranno pesantissime, in termini di distruzioni, di morti e in termini economici.
La terza preoccupazione, che in realtà è una conferma delle due precedenti, è che l’Iran ha occupato il pozzo petrolifero numero 4 di Fakka, ai confini con l’Iraq a 230 km a sud-est di Bagdad, sul quale l’Iraq ha sempre rivendicato la sovranità. Dei soldati hanno sconfinato e piantato una bandiera. Il blitz ha avuto valore simbolico, tanto è vero che non ci sono stati scontri, e sicuramente sarà risolto – se già nel frattempo non è avvenuto – per via diplomatica, ma la dice lunga sul clima che regna a Teheran, che negli ultimi giorni ha continuato con gli esperimenti dei lanci missilistici.
Tutti questi elementi messi insieme formano un quadro realistico del pericolo rappresentato dall’Iran nel Medio Oriente. Obama ha continuato nella politica del dialogo, ma finora il dialogo è stato a senso unico.
✗[email protected]
Articolo precedente
Prossimo articolo
Ti potrebbe interessare anche...
- Commenti
- Commenti su facebook