Dall’“intesa globale” ai contrasti su tutto, o quasi. È questa la piega che stanno prendendo i rapporti Usa-Cina, iniziati lo scorso anno all’insegna di una nuova epoca di progresso e di pace, dopo le tragedie che caratterizzarono il secolo scorso con le guerre mondiali, con i regimi nazi-fascisti e con le guerre fredde tra democrazie e dittature comuniste.
L’intesa globale (G2) era nata per sbloccare l’immobilismo dei rapporti internazionali, con gli Usa che “imponevano” la direttiva di marcia, seguiti dai suoi alleati più o meno fedeli in Europa e in Medio Oriente, e gli altri, Cina, Russia e satelliti dell’una o dell’altra che facevano muro, permettendo, ad esempio, all’Iran o alla Corea del Nord, di fare quello che volevano. La prospettiva del G2 aveva cominciato a rimettere tutto in discussione aprendo la strada del cambiamento.
La Cina, in quel nuovo clima, sembrava voler sbloccare la questione iraniana e soprattutto neutralizzare le sue potenzialità destabilizzanti in Medio Oriente. Gli Usa sembravano voler chiudere un occhio sui diritti umani calpestati in Cina derubricando la questione a “fatti interni”. L’intesa, dunque, per accordo ufficialmente dichiarato nel corso del viaggio del Presidente americano a Pechino di circa sei mesi fa, veniva perseguita sulle cose di comune interesse, mettendo da parte senza drammi le cose su cui l’accordo non poteva essere trovato.
Poi, però, ci sono stati i primi screzi, in occasione della Conferenza sul clima a Copenaghen (metà dicembre), quando gli Usa avrebbero anche accettato di pagare i costi degli impegni di Cina e India contro l’inquinamento atmosferico, ma a condizione di poter effettuare i controlli sull’utilizzo effettivo delle risorse date. La Cina e l’India hanno rifiutato i controlli, per cui l’accordo sul clima è saltato, con il fallimento di fatto della Conferenza stessa, costretta a ripiegare su obiettivi generici e su scadenze lontane nel tempo. Da allora è stato un crescendo di contrasti anche su singoli punti, dalla fornitura di armi da parte degli Usa a Taiwan ai controlli su Google in Cina e alla visita del Dalai Lama alla Casa Bianca, al punto che quando saranno discusse nel Consiglio di sicurezza dell’Onu le sanzioni contro l’Iran difficilmente la Cina darà il suo assenso, quanto meno a quelle definite più severe.
Sono molti i commentatori di politica internazionale che parlano sempre più apertamente del fallimento della politica di Obama, lanciata con grande efficacia in America e nel mondo arabo (Cairo) per l’indiscutibile carica di novità che conteneva – l’abbandono dell’unilateralismo e la ricerca della pace tra tutti i soggetti in causa – ma a un anno di distanza senza apprezzabili risultati, a cominciare dal Medio Oriente, dove l’immobilismo armato è palese.
Insomma, la pace in Medio Oriente semplicemente non ha fatto nessun passo in avanti. Ed è qui che si salda l’iniziativa italiana con il viaggio di Berlusconi in Israele con l’appendice dell’incontro con Abu Mazen.
La visita in Israele del premier italiano non è stata soltanto un successo personale di Berlusconi. Se fosse stata solo questo non avrebbe ricevuto gli apprezzamenti di altre cancellerie e probabilmente anche della Casa Bianca. L’uomo, sia detto per inciso, non è la prima volta che ha mostrato di sapersi muovere con grande capacità e competenza sulla scena internazionale.
La visita è stata un successo perché ha smosso le acque stagnanti dell’immobilismo della politica americana in Medio Oriente, dove l’inviato speciale del Presidente Usa, George Mitchell pare che salti da una città all’altra con una “borsa vuota”, ripetendo sempre lo stesso invito – ormai un ritornello inefficace – di tornare al tavolo delle trattative. Berlusconi è andato in Israele e ha detto senza nessuna diplomazia che Israele deve abbandonare gli insediamenti in Cisgiordania e deve restituire la collina del Golan alla Siria per poter rimettere in moto il processo di pace. Ha detto anche che la comunità internazionale deve opporsi all’Iran perché il regime degli ayatollah vuole la destabilizzazione della regione e la distruzione di Israele, secondo quanto ha affermato recentemente dalla Guida Suprema iraniana Alì Khamenei.
Il premier italiano non solo non ha usato diplomazia dicendo ciò che tutti pensano ma nessuno dice e fa con chiarezza, ma ha mostrato coraggio nel saper rinunciare ad un partner commerciale (l’Iran) tra i più importanti per l’Italia. Va da sé che la Knesset, il Parlamento israeliano, gli ha tributato apprezzamenti mai regalati a nessuno (“il più grande amico di Israele”) e che la risposta dell’Iran non si è fatta attendere (“Berlusconi è il servo di Israele”, insieme alla decisione di accelerare l’arricchimento di uranio al 20%), però – e qui si passa dal successo personale a quello che proviene dalle proposte – è un fatto che l’iniziativa italiana ha colmato il vuoto della mancanza di iniziativa americana.
Non è un caso se Netanyauh ha scritto una lettera ad Assad per la ripresa della pace senza precondizioni affidandola a Berlusconi intermediario fra i due Paesi. Certo, è stato scritto che Berlusconi è riuscito ad essere uno e trino, nel senso che ha dato ragione agli israeliani quando hanno reagito ai missili provenienti da Gaza e ha solidarizzato con Abu Mazen quando ha deplorato le vittime palestinesi di quegli stessi raid che aveva considerato la “giusta reazione” degli israeliani attaccati, ma la realtà è che ha posto tutti gli interlocutori di fronte alle loro responsabilità.
È evidente che il ruolo dell’Italia è ridotto, che l’Italia non è una grande potenza e non ha capacità di operare trattative risolutive, però la sua iniziativa è stata un valido assist che gli Usa e anche l’Europa uscita dal nuovo Trattato di Lisbona dovrebbero raccogliere e rilanciare per sbloccare la situazione di stallo.