Giovani che ballano all’aperto senza dare fastidio,la Corte Suprema che
condanna i genitori se i figli sbagliano, la legge spesso spietata dei clan rom
Alcuni fatti di cronaca accaduti recentemente dimostrano che in Italia qualche passo avanti nella direzione di una maggiore responsabilità – da parte del singolo, di chi amministra e anche di una porzione di società – si sta facendo, magari a fatica e tra mille difficoltà, ma qualcosa di diverso s’intravede.
Il primo fatto di cronaca riguarda la musica all’aperto a Milano (ma anche a Venezia), con centinaia di giovani in piena città che si divertono – ed ecco la novità – senza creare problemi agli altri, soprattutto a quelli che l’indomani devono andare presto a lavorare e non possono stare svegli la notte o essere disturbati.
L’idea è di Esterni, un pool di giovani che progetta eventi che coniugano il divertimento con la discrezione negli spazi pubblici.
In pratica, basta un documento di riconoscimento, con il quale si può prendere in prestito un lettore mp3 e gli auricolari e poi il Silent Rave Party può iniziare. Magari fino a mezzanotte i balli sono scatenati, nel ritmo e nei decibel, ma poi, appunto, quando l’ora si fa seria, il dj mette i dischi e il rumore d’incanto sparisce per andare a finire solo nelle orecchie di chi balla. Con non pochi vantaggi: per chi deve dormire, perché può farlo in tutta tranquillità in quanto tutt’intorno non c’è alcun rumore; per i giovani, che si divertono come se il rumore fosse percepibile anche da altri; per la novità di un’atmosfera surreale, con tanti corpi che si dimenano, scattano, sembrano gridare, senza il minimo rumore intorno; per gli organizzatori, che non solo si sono distinti per un’idea nuova ed educativa, ma anche perché hanno fatto contenti giovani e vicini contemporaneamente, e non è poca cosa in un mondo in cui è più facile lamentarsi che essere soddisfatti.
Siamo sicuri che l’idea si propagherà alla velocità del… suono!
Il secondo fatto di cronaca proviene da una sentenza della magistratura, col fine di spaccare il capello in quattro per far apparire colpevole un innocente e innocente un colpevole senza attribuire colpe a nessuno, ma questa volta molto chiara e ferma nell’individuare responsabilità e nel perseguire anche fini educativi. Nel 1990 – cioè diciannove anni fa, ma con i tempi bisogna avere tanta pazienza – un ragazzo di Potenza, che aveva diciassette anni e mezzo, ebbe con il motorino un incidente nel quale morì un altro giovane.
Il ragazzo, senza casco, venne ritenuto colpevole al 70%. Nel 2005 la Corte d’Appello di Potenza condannò i genitori a pagare metà delle spese processuali e a risarcire per danni morali e per le spese mediche sostenute i familiari del ragazzo morto.
I genitori presentarono ricorso, ma la Corte Suprema ha dato loro torto definitivamente. In un Paese dove si preferisce dar torto al morto (tanto è morto e non può parlare), questa volta la sentenza è stata esemplare: “I genitori di un minore hanno doveri di natura inderogabile, finalizzati a correggere comportamenti sbagliati e quindi meritevoli di costante opera educativa, per realizzare una personalità equilibrata, consapevole della razionalità della propria esistenza e della protezione della propria e altrui persona”.
In poche parole, chi sbaglia paga e se si tratta di un minore, per lui o lei pagano i genitori che non lo hanno educato come si deve.
Viene qui riaffermato il principio secondo il quale l’educazione tocca ai genitori, i quali non possono accampare scuse o far ricadere le colpe sulla società, come troppo spesso si è fatto scaricando i costi sui contribuenti, anche quando le responsabilità erano evidenti e accertate in flagranza di reato.
Il terzo ed ultimo caso riguarda l’arresto di un clan di rom nel milanese. Una volta ai rom si mettevano i tappeti rossi, chiudendo tutti e due gli occhi sulle loro attività, per accertare le quali bastava riflettere solo un pochino e porsi la domanda: ma come vivono, che lavoro fanno? Beh, questa volta è stata una ragazza rom di 19 anni a denunciare i genitori e tutto il clan formato da zie e zii, da parenti lontani e vicini.
La ragazza e il clan una volta si trovavano in Germania, il cui governo ha dato i soldi per far studiare i minori. Finita la scuola, sono finiti anche i finanziamenti perché dopo la scuola c’è il lavoro, ma evidentemente il clan ad un normale lavoro non ci aveva mai pensato e allora arrivano in Italia, dove s’insediano in un campo abusivo e da lì ogni giorno partono per andare a rubare e a trafficare anche droga.
La ragazza, però, è l’unica che non ne vuol sapere di rubare, si vede che la scuola in Germania funziona, vuole una vita normale, un lavoro normale, fare la parrucchiera, e una famiglia altrettanto normale, ma la sua, di famiglia, non glielo permette. Per anni tutti quelli del clan- la picchiano e la insultano; alla fine il padre tenta anche di violentarla e poi di venderla per ventimila euro.
La ragazza, stanca delle continue angherie, riesce a scappare dal campo e a denunciare tutto alla polizia, che arresta quasi tutto il clan, tranne il padre e una zia che sono riusciti a fuggire in Bosnia.
Forse si cominciano ad aprire gli occhi su una realtà che alcuni idealizzano, ma che è spesso spaventosa.