Il vincitore delle primarie democratiche alla guida dell’Italia
È il mattino di una domenica uggiosa e un po’ triste. L’Etzel alle mie spalle e laggiù, lontano all’orizzonte, il Santis, sono avvolti da quella grigia foschia che abbraccia i monti nel mentre scende il primo fiocco di neve. Ricordi del ragazzo che, a dicembre di un anno che fu, guardava all’insù verso il pizzo Adamello o il maestoso Disgrazia delle alpi retiche in trepida attesa del segno. Era ora. Tra poco, il manto di un lindo biancore avrebbe avvolto la valle ed io già salivo al solaio a prendere il vecchio slittino con cui, non prima arrivato sino all’alpe prenzera, sarei ridisceso in picchiata sino al borgo. Sono appena ritornato da Roma al termine di una settimana, della cui drammaticità, si discuterà, nel bene o nel male, per anni. L’inizio, per altro, fu del tutto normale. La solita levataccia alle quattro del mattino per raggiungere, nel tempo dovuto, l’aeroporto di kloten, salire sul Condor – così io chiamo l’Airbus della Swiss – per poi, un’oretta o qualcosa di più, in picchiata verso la Roma dei papi e dei cesari.
Montecitorio ti attende con quell’aria di sempre. Un misto di noia e sussurri annuncianti segreti dell’ultima ora, dall’inclita al volgo dai più conosciuti come pure fregnacce che, dette e ridette, ti sembrano vere. Già, il transatlantico, il luogo dei passi perduti, l’immenso salone addetto agli strusci di chi poco conta e passa il suo tempo inventando inciuci passati o futuri, segreti, incontri mai fatti. E quando un ministro di peso si affaccia è un correre ansioso al saluto per darsi una mossa, un ruolo che nessuno conosce. Un giorno, se il tempo e il destino sarà a me benigno, scriverò la storia del deputato “peones” senza arte né parte. Quel suo vagare tra l’aula affollata a schiacciare il bottone del verde, del giallo o del rosso per decidere, assieme ai seicento, il destino di un atto, una proposta di legge, un decreto, ai più sconosciuti, seguendo il segnale del regista di turno a cui è affidato il gesto del si o del no. Oppure, salire più in alto, alla saletta della commissione di cui fai parte ove è possibile assumere un ruolo su un tema specifico e dire la tua sul tema che sai per avere passato la notte a studiare i faldoni da cui hai carpito l’essenza per sfuggire al pericolo di interventi errati o banali. È duro, per il deputato peones, a cui manca l’appoggio dei centri di studio, riservato ai vertici di ogni partito, il lavoro a sostegno della comunità nazionale che ti ha eletto.
È così che passi il tuo tempo a scrivere ordini del giorno, vergare emendamenti, allestire proposte di legge a cui nessuno fa caso, nel mentre a Zurigo, Berlino o Parigi, il tuo popolo è in fiduciosa attesa. Crolla spesso la certezza di operare per il bene comune, cresce l’amarezza per il poco ottenuto, ti assale il dubbio di uno sforzo, inascoltato e inutile. Vabbè, non lasciamoci andare. Con quel che succede attorno al palazzo del governo lì accanto nel mentre il primo ministro ( Enrico Letta ) è salito a Bruxelles ad incontrare i capi di stato dell’Unione per proporre l’ennesimo programma di investimenti e rilancio. È andato ad incontrare la Merkel e il Cameron, due tipi dalle mani d’acciaio, ma nessuno può dire con assoluta certezza se il compito ingrato è lassù o quel che lo aspetta al ritorno. Alcune giornate in attesa, e tutto appare più chiaro. Ritorna e già nel suo volo per Roma apprende che il suo destino è segnato. Ne ho viste di cotte e di crude. Eppure, io sono sorpreso, persino sconvolto , dalla repentina caduta di un leader a cui nulla io devo se non il rispetto per l’uomo: onesto, provvisto di grande cultura europea, esponente politico capace e concreto.
È stata la direzione del partito democratico, a sfiduciarlo. Con il voto su un documento, sintetico e persino brutale, in cui si chiede un cambiamento radicale di linea politica e l’assunzione di responsabilità diretta del nuovo leader, ( Matteo Renzi ) plebiscitato da due milioni di elettrici e elettori alle primarie democratiche del dicembre scorso. L’evento era, ai miei occhi, inevitabile. Non si organizzano consultazioni di massa con la partecipazione di milioni di cittadini per lasciare le cose come stanno. E d’altronde, dal paese salgono le attese per una svolta di metodo e classe. Avere atteso troppo tempo, è stato un errore. E il possibile avvento – al momento in cui scrivo non è ancora certificato dall’incarico del presidente Giorgio Napolitano – di Matteo Renzi alla guida del governo può essere la scossa per fare ripartire il processo di riforme economiche e sociali di cui l’Italia ha bisogno. Mi ha sorpreso l’agghiacciante decorso degli eventi. La solitudine di Enrico Letta, brutalmente abbandonato al suo destino, ben rappresentata dall’esiguo gruppetto dei coraggiosi “lettiani” in ritiro dai lavori della direzione democratica.
Mi ha rattristato la rapidità dei volta gabbana nell’ abbandonarsi alle carezze del vento innovatore. Il solito trasformismo italiano dei tanti e tante privi di moralità e pudore. Arrivederci, Enrico Letta, la repubblica, ne sono convinto, avrà ancora bisogno di te. Auguri, Matteo Renzi. A te e al nostro paese. Attento agli adulatori senza principi. Sono, da sempre, il male di questa nostra Italia.