Ha utilizzato le lenzuola presenti nella sua cella annodandole assieme: così la neobrigatista Diana Blefari ha creato un cappio e si è impiccata attorno alle 22,30 di sabato 31 ottobre scorso nel carcere femminile di Rebibbia a Roma.
La donna, lo scorso 27 ottobre, aveva ricevuto dalla Prima sezione penale della Cassazione la conferma alla condanna all’ergastolo per il concorso nell’omicidio del giuslavorista Marco Biagi, avvenuto a Bologna il 19 marzo 2002.
Secondo quanto si è appreso, al momento del suicidio la donna era in cella da sola, detenuta nel reparto isolamento.
A rinvenire il corpo della Blefari sono stati gli agenti di polizia penitenziaria che hanno tentato, senza riuscirci, di rianimare la donna.
“Il carcere femminile di Rebibbia è quello più grande d’Italia e con la più grave carenza di agenti: nonostante questo il personale in servizio è stato tempestivo ed è subito intervenuto per prestare soccorso a Diana Blefari”: così Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp), evidenzia la tempestività dei soccorsi rilevando anche come di notte, in sezione, sia generalmente presente un solo agente che ha la responsabilità di sorvegliare un numero sempre maggiore di detenuti visto l’elevato tasso di sovraffollamento delle carceri italiane.
Diana Blefari da tempo dava segni di cedimento psicologico: lo scorso aprile il gup del tribunale di Roma Pierfrancesco De Angelis aveva infatti disposto una perizia psichiatrica per verificare la capacità di intendere e di volere della donna dopo che la neobrigatista aveva aggredito un agente di polizia del carcere: secondo i legali della Blefari proprio quell’aggressione era una conseguenza delle particolari condizioni mentali in cui la donna versava dopo la condanna all’ergastolo a Bologna. Anche dopo la conferma dell’ergastolo in Cassazione, i legali della donna cercarono di contestare la legittimità della perizia medica eseguita nell’appello bis, sostenendo che era di parte in quanto affidata ad un consulente del pm che si era già occupato del caso.
Informata del suicidio della sua assistita Caterina Calia, uno dei legali della Blefari, ha dichiarato: “Ora ci credono, ora chiamano tutti, prima non chiamavano nessuno. Non ho proprio voglia di parlare: sono quattro anni che denunciamo le sue condizioni”.
Dura anche la presa di posizione del Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni: “Il sistema carcerario italiano – ha detto – ha dato, ancora una volta, l’ennesima dimostrazione di inumanità e inefficienza, non riuscendo a cogliere i segnali di allarme di una situazione da tempo gravissima.
I precedenti familiari della donna, le sue condizioni psichiche, il suo comportamento quotidiano, la sua solitudine e il suo rifiuto del cibo e delle medicine – ha osservato – tratteggiavano un quadro complessivo che doveva necessariamente far scattare un campanello d’allarme che, evidentemente, non si è attivato in tempo’’.
Analogo il parere del leader storico dei Radicali italiani Marco Pannella, intervenuto ai microfoni di Cnr Media: “Ho motivo di credere – ha detto – che questo suicidio sia il risultato di un sistema di giustizia e carcerario che induce a gesti estremi”.
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