Come l’inizio del 2009 è stato un anno trionfale per Barack Obama, così quello del 2010 lo è stato, se non di sconfitte, quantomeno di offuscamento della sua immagine.
Infatti, con il nuovo anno – ma le osservazioni erano iniziate anche prima – sono comparsi, sulla stampa americana prima e europea dopo, commenti non proprio favorevoli sul presidente degli Usa sul bilancio della sua presenza alla Casa Bianca.
Una delle accuse più insidiose è stata quella sulla sua capacità di decisione, a giudizio di molti troppo lenta e soprattutto mai netta. In sostanza, Obama avrebbe il torto di studiare i dossier, di analizzarne i vari aspetti, ma le decisioni tarderebbero ad essere prese, anche perché non sarebbero mai definitive. Obama avrebbe il difetto di porsi di fronte ai dossier da avvocato e non da presidente. Un esempio? L’invio dei 33 mila soldati americani in più in Afghanistan. I detrattori del presidente dicono che per fare quello che avrebbe fatto Bush ci ha messo solo un po’ più di tempo.
Sarà, però se questa è un’opinione, quello dell’immagine appannata presso l’opinione pubblica è un fatto certo.
Lo dimostrano il calo di popolarità presso gli americani e la sconfitta – questa sì cocente – del seggio senatoriale nell’Illinois, tradizionale feudo di Edward Kennedy, recentemente scomparso. Sul calo della popolarità passiamo oltre, perché è normale che esista.
Il nuovo, prima che venga realizzato, passa anche per delle difficoltà inevitabili, soprattutto se si opera avendo contro una quasi metà dell’elettorato. Il seggio senatoriale perso è molto importante per avere i numeri per far passare la legge sulla sanità a tutti e se non riuscirà a farla approvare, allora sì che subirà un colpo forte. È ancora presto per dirlo, ma certo, con la vittoria di un repubblicano, le cose si complicano.
E si complicano anche sul piano internazionale, dove preoccupano non tanto la vista dei marines ad Haiti – segno non che gli Usa vogliono colonizzare l’isola piuttosto che vogliono dimostrare il loro impegno a favore della pace e della ricostruzione – quanto il passo che sta segnando il G2, ovvero l’intesa “globale” tra gli Usa e la Cina.
Dopo una partenza che aveva fatto suscitare molte speranze sia per quello che l’intesa avrebbe potuto dare direttamente sia per quello che avrebbe potuto smuovere indirettamente negli Stati sotto l’influenza della Cina (Corea del Nord, ma anche Iran), negli ultimi tempi i rapporti si stanno raffreddando.
Lo abbiamo visto per la prima volta agli inizi di dicembre, in occasione della conferenza di Copenaghen sul clima, quando l’accordo, di fatto, non c’è stato. La Cina si aspettava che a pagare i costi della riduzione delle emissioni dei gas serra sarebbero stati gli Stati Uniti, i quali li avrebbero anche pagati, ma non lo hanno fatto perché la Cina e l’India non hanno dato garanzie sui controlli.
Questo mancato accordo può essere derubricato a incidente di percorso, ma che dire dei contrasti insorti nei giorni scorsi in seguito al discorso di Hillary Clinton sulla mancanza di libertà su Internet in Cina? Su questa materia sono riaffiorate antiche e diverse concezioni della democrazia.
In sostanza, la libertà su Internet è una variante moderna della mancanza dei diritti civili e politici in Cina e in genere nei Paesi a regime dittatoriale. Sembra che Hillary Clinton abbia posto una problema reale con modi sbagliati. Google e la Cina stanno svolgendo una trattativa commerciale ma, a giudizio di Pechino, secondo regole cinesi, non americane.
Il Sottosegretario di Stato americano, invece, non solo ha voluto denunciare il fatto che le regole cinesi vanno contro gl’interessi delle imprese americane in Cina, controllate dal regime, ma ha voluto porre il problema della libertà d’informazione in generale.
Perché la questione ha assunto un valore politico importante? Perché la Cina, se non va in porto la trattativa commerciale con Google, potrebbe costituire una rete alternativa, insieme ai Paesi del Sud Est asiatico.
Questo, però, minerebbe gli altri dossier aperti tra Usa e Cina, a cominciare dalla vendita delle armi a Taiwan e alla visita del Dalai Lama a Washington – cose che alla Cina non vanno a genio – o dalle sanzioni americane all’Iran nel prossimo mese di febbraio, sanzioni che la Cina potrebbe non approvare.
In poche parole, il G2 potrebbe fallire trascinando con sé la politica del dialogo inaugurata da Obama un anno fa. Il che sarebbe davvero una sconfitta per l’amministrazione Usa.
Dunque, ad Obama toccherà scegliere nell’immediato tra due opzioni: portare fino alle estreme conseguenze il contrasto sui principi ultimamente sollevato – e sarebbe una via senza uscita – oppure riproporre i termini dell’intesa, che erano quelli di procedere separatamente alla discussione e all’accordo sui singoli dossier, senza la pretesa di un accordo su tutto e a tutti i costi.
Questa è l’unica strada per Obama di rilanciare la sua “novità”. Le scorciatoie sono piene di difficoltà.
✗[email protected]
Articolo precedente
Prossimo articolo
Ti potrebbe interessare anche...
- Commenti
- Commenti su facebook