Dopo la tempesta, la calma, o, almeno, un po’ di calma. È questa la sintesi degli scontri politici che ci sono stati all’interno della maggioranza dopo la presentazione al Senato del disegno di legge sul processo breve.
Riepiloghiamo i fatti. Dopo le polemiche succedute alle prese di posizioni del presidente della Camera, Gianfranco Fini, sulla cittadinanza “breve” agli immigrati (dopo un soggiorno di 5 e non più di 10 anni come recita la legge attuale) e sulla concessione del diritto di voto amministrativo anche senza la cittadinanza – posizioni che erano state accolte dal centrosinistra insieme ad una certa benevolenza nei confronti di Fini che dava pubblicamente l’impressione di gradire e nello stesso tempo di accentuare le distanze dal centrodestra – c’era stato un vertice tra i due fondatori del Pdl, Berlusconi e Fini, al termine del quale si era convenuto di istituire una specie di caminetto per la collegialità delle decisioni politiche e nello stesso tempo di procedere, dopo la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale, con un disegno di legge sul processo breve per dare una prima risposta ad una riforma complessiva sulla giustizia e nello stesso tempo per mettere al riparo il premier da quello che i due avevano definito un “accanimento giudiziario” da parte di magistrati schierati.
L’accordo si era chiuso con la decisione di stanziare risorse per il sistema giudiziario in modo da metterlo in condizione di funzionare meglio.
Nel giro di pochi giorni, il provvedimento è stato presentato al Senato ma anzichè rasserenare i rapporti all’interno della maggioranza li aveva ulteriormente inaspriti.
Il ddl sul processo breve conteneva sì una durata ragionevole di due anni per ogni grado di giudizio – come tra l’altro richiede l’Europa – ma escludeva dai benefici della norma alcuni reati penalmente minori come quello di clandestinità. La parte che si riconosce in Gianfranco Fini all’interno del Pdl ha apertamente dichiarato la sua opposizione al provvedimento, tanto più che vari esponenti della maggioranza e delle opposizioni vi ravvisavano chiari elementi di incostituzionalità.
Ad enfatizzare le polemiche erano, come detto, le opposizioni, che si opponevano comunque ad una legge ad personam e per farlo annullare puntavano sul presunto caos che le norme avrebbero provocato sulla disparità di trattamento tra i cittadini (annullamento di tanti processi faticosamente avviati).
Contemporaneamente era scoppiata la patata bollente del caso Nicola Cosentino, il sottosegretario all’Economia oggetto di una richiesta di arresto da parte dei pm napoletani con l’accusa di essere stato sostenuto elettoralmente dal clan dei “casalesi”. A polemiche si sono aggiunte polemiche. Fini chiedeva il ritiro della candidatura di Cosentino per motivi di opportunità, Berlusconi ravvisava nei capi d’imputazione delle accuse strumentali e politiche in quanto si trattava di dichiarazioni di pentiti risalenti al 2001 non suffragate da prove.
Lo scontro era arrivato ad un livello di possibile rottura, tanto è vero che il presidente del Senato, Renato Schifani, riferendosi alle polemiche nella maggioranza, era arrivato a dichiarare che se la maggioranza si fosse spaccata, l’unica alternativa sarebbero state le elezioni. Il che ha fatto pensare che dietro le dichiarazioni di Schifani ci fosse Berlusconi e la sua voglia di mandare tutto all’aria, come gli aveva suggerito l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
Dopo qualche giorno, in seguito all’annuncio da parte del ministro della Giustizia che l’impatto del ddl sui processi brevi sarebbe stato dell’1% e alla volontà del governo di volerlo fare approvare entro la fine di gennaio-febbraio migliorandolo e sottraendolo ad eventuali accuse di incostituzionalità, in seguito anche al tentativo di mediazione di Casini che ha sostenuto che bisogna tutelare il premier senza per questo gridare alla disparità di trattamento che comunque già esiste (un deputato non può né essere perquisito, né essere arrestato come un qualsiasi cittadino), è sopraggiunta la dichiarazione del premier che ha ufficialmente smentito il ricorso alle elezioni anticipate. La dichiarazione ha avuto l’effetto di smorzare le polemiche interne al Pdl e di invitare tutti ad un maggiore senso di responsabilità.
Reggerà la tregua? Difficile dirlo. La dichiarazione del presidente della Repubblica, secondo cui ci sono spiragli per le riforme, è un’ancora di salvezza per la maggioranza (che deve ritrovare la bussola delle riforme e della pacificazione interna) e per l’opposizione, in particolare per il Pd che, dopo l’uscita di Rutelli e la sconfitta di D’Alema in Europa, non può permettersi di giocare allo sfascio, a rischio di elezioni che sarebbero una iattura in questo momento.
D’altra parte, la diminuzione del numero dei parlamentari, l’eliminazione delle due Camere doppioni, la creazione quindi del Senato delle Regioni, nonché la stessa riforma della Giustizia, sono tutti temi su cui è possibile trovare un accordo, almeno a giudicare dalle dichiarazioni ufficiali dei principali partiti.
È su questo che Napolitano aveva intravisto “spiragli”.
Prossimamente dopo la riunione del vertice del Pdl, si potrà verificare se gli spiragli di un interesse convergente sulle riforme potranno essere allargati o se invece verranno chiusi.
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