Dopo la crisi arriva sempre la svolta
Tutti conoscono la peste del 1630. Manzoni la descrisse così bene che essa è nota come “peste manzoniana”. Ma anche Boccaccio ci ha lasciato vivide pagine sulla peste – invece – del 1348, che non hanno avuto uguale fortuna. E non perché non la meritassero. Boccaccio scrisse il Decamerone fra il 1349 e il 1353, e della “peste bubbonica” parla nell’Introduzione (Giornata prima). La sua descrizione trasuda di paura e di ribrezzo, con tanti riferimenti all’odierno contagio ed agli odierni mezzi del contenimento fisico. Con la differenza che, allora, di mezzi davvero non ce n’erano, nel ‘300 l’Italia era ancora povera economicamente; adesso, invece, si sono chiuse case e città solo perché i mezzi (per fare tamponi a tappeto) ci sarebbero stati, eccome, se non li avessero sperperati prima. Basta vedere – mi sia permessa una digressione – come hanno ridotto la Via Emilia proprio nella mia Piacenza, la città più colpita dal virus Corona: la via consolare romana (con le rotonde inutili di cui gli amministratori regionali e comunali l’hanno disseminata) neanche più si riconosce.
La “mortifera pestilenza” del Trecento – a giudizio di Boccaccio – arrivò anch’essa, dunque, dall’Est. Non valsero a bloccare la diffusione i divieti, per gli infermi, di entrare in Firenze e i «molti consigli dati a conservazione della sanità». A curare quelle infermità «né consiglio di medico né virtù di medicina» valevano, e nonostante i “medici” – o pretesi tali – si fossero come d’incanto moltiplicati, quasi tutti i colpiti «infra il terzo giorno dall’apparizione dei predetti segni, chi più tosto e chi meno, ed i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano». Il male, «s’avventava ai sani non altrimenti che faccia il fuoco alle cose, secche o unte quando molto si sono avvicinate », e «non solamente il parlare e l’usare con gl’infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni e qualunque altra cosa da quegli infermi stata tócca o adoperata portava seco quella cotale infermità e nel toccator trasportata». Anche allora i giudizi, e conseguenti comportamenti, si divisero. C’era chi «faceva brigata», vivendo «moderatamente» e tenendosi «separati». Altri, «in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai ed il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando ed il soddisfar d’ogni cosa all’appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi, esser medicina certissima a tanto male». Molti altri «servivano una mezzana via». Altri dicevano «niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir». Boccaccio descrive poi situazioni particolari e racconta: «erano radi coloro i corpi de’ quali fosser più che da un diece o dodici de’ suoi vicini alla chiesa accompagnati». Sembra d’esser ai giorni nostri. Boccaccio fece conto che solo a Firenze (ma quella peste dilagò perlomeno in tutta l’Alta Italia, anche allora) morirono non meno di 100mila persone. La desolazione era dappertutto. E, poi, dopo la crisi sanitaria, la crisi economica.
LA RINASCITA
Da Omero, a Pericle, a Marco Aurelio, le pestilenze – provenienti per la gran parte dall’Oriente – hanno tutte lasciate il loro segno e, soprattutto, hanno quasi ogni volta portato a svolte epocali. Quella del Boccaccio aprì la strada al Rinascimento. Quella manzoniana ruppe la società corporativa e insegnò che solo una società aperta, quella liberale, poteva innescare una vera rinascita esattamente come fece anche Maria Luigia, con una codificazione innovativa (anche nel combattere – certo meglio di adesso – il contagio, il cholera morbus, la duchessa innovò: ad esempio, combattendo il colera con l’arretrato contenimento fisico, ma anche facendo leva sulla pulizia nonché sui medici, mettendo a loro disposizione camici inamidati in ogni angolo di Parma e di Piacenza). Oggi, invece, i conservatori stanno prendendo fiato, come se la Sanità pubblica – con quel che costa in Emilia tutte le tasse provinciali – si sia presentata preparata. Sicché (come alcuni liberali/libertari avevano avvertito, in un loro appello) andrà già bene se alla pandemia sanitaria non s’aggiungerà la pandemia statalista. Perché poi la responsabilità non sia nella (fallita) visione emiliana ospedale-centrica, nella demolizione della medicina di base, nell’eliminazione dei medici condotti o – ancora – nella dilagante e sostenuta Sanità pubblica ma nella striminzita, e combattuta, Sanità privata, questo neppure Dio lo sa. Non si dice, del resto, che la prima che canta è la gallina che ha fatto l’uovo?
Corrado Sforza Fogliani
Presidente Centro Studi Confedilizia