“Lunedì 30 agosto 1965 una valanga di più di 2 milioni di metri cubi di ghiaccio seppellì 88 dei lavoratori impegnati nella costruzione della diga in terra più grande d’Europa. Di questi, 56 erano italiani. Come a Marcinelle, la tragedia determinò un momento di cesura nella lunga e travagliata storia dell’emigrazione italiana, segnando un punto di non ritorno. La catastrofe suscitò molto scalpore in tutta Europa: per la prima volta, stranieri e svizzeri morivano l’uno a fianco all’altro”.
Erano gli anni nei quali l’emigrazione si andava progressivamente meridionalizzando.
L’Appennino iniziava la sua lenta e irreversibile desertificazione. Dall’Irpinia all’Abruzzo, dalla Sila alle coste salentine, il Mezzogiorno si svuotava senza sosta, mentre la piccola Svizzera accoglieva da sola quasi il 50% dell’intero flusso migratorio italiano: più di 2 milioni e mezzo di persone, dall’immediato secondo dopoguerra e fino agli anni Ottanta. Molte furono impegnate nella costruzione di grandi opere, come la diga di Mattmark. Lo sfruttamento dell’energia idroelettrica, che ancora oggi rappresenta la fonte principale di approvvigionamento della Confederazione, fu fino agli anni Sessanta quasi l’unica risorsa energetica – prima di essere affiancata dal nucleare – grazie alla quale crebbe l’industria e venne accelerata la modernizzazione del paese. E proprio mentre si stava per raggiungere un altro traguardo della nouvelle politique d’industrialisation, inaugurata negli anni Cinquanta, nel Vallese, in cui si trovano due terzi dei ghiacciai del paese e storicamente una delle «individualità» più particolari dell’intera Svizzera, accadde l’irreparabile.
Questa storia, come a Marcinelle, si concluse nel modo peggiore. I tempi dell’inchiesta furono lunghissimi, sette anni. Diciassette gli imputati chiamati a rispondere all’accusa di omicidio colposo, tutti assolti, nonostante l’instabilità del ghiacciaio fosse nota da secoli. In appello andò anche peggio: assoluzione confermata e i ricorrenti (familiari delle vittime) furono condannati al pagamento delle spese processuali. Le reazioni furono di profondo sdegno e incredulità. In Svizzera, l’opinione pubblica utilizzò Mattmark come stimolo per approfondire il dibattito sul senso stesso di uno sviluppo economico pressoché incontrollato, che richiedeva sempre più manodopera straniera scarsamente qualificata. Anche per gli italiani in Svizzera, Mattmark fu l’occasione per interrogarsi sul senso della loro presenza in un Paese in cui erano economicamente necessari, ma socialmente male accettati.
L’oblio nel quale è caduta questa tragica pagina dell’emigrazione italiana, e più in generale della recente storia svizzera, ci fa parlare di Mattmark come di una “Marcinelle dimentica”.
Lo scrive Toni Ricciardi, vicepresidente del gruppo Pd e storico delle migrazioni