Le aberrazioni, sotto il regno di Massimino, non riguardarono soltanto l’egoismo di figli che eleggevano la morte, indifferenti al destino degli anziani genitori, ma in maniera ben più drammatica, che la dice lunga sull’ assurdità del fanatismo, si registrano anche per madri che, invece di straziarsi, furono estasiate per la sorte toccata ai figli, se scaturiva dall’autentico volere divino, da cui prendeva necessità e giustificazione.
Tale fu il caso di una donna della Laconia di nome Giulitta, rampolla di una delle famiglie più in vista della città. Una persona dal rigore così integerrimo, che, oltre ad adempiere con scrupolo i suoi doveri di cristiana, si sentiva sinceramente afflitta per l’empietà del mondo: alla quale si supponeva chiamata a rimediare, senza sospettare quale misterioso sentiero Dio le aveva prescritto, affinché riuscisse nel suo formidabile disegno. Pertanto, convinta che non avrebbe potuto realizzarlo sotto la repressione di Massimino, con la speranza di svolgerlo altrove, o perlomeno di morire in maniera esemplare, un bel giorno abbandonò i suoi beni ed emigrò verso lidi più sereni. E insieme a un bimbetto di due anni, di nome Ciro, si spostò a Tarso, la più importante città della Cilicia, aureolata dalla gloria di aver dato i natali a Paolo.
Contrariamente a tutte le aspettative, però, il suo esodo non fu fortunato. Ché vi aveva appena messo piede, quando, sconosciuta in quel luogo, per puro caso fu arrestata, e condotta davanti al governatore. Quest’ultimo, espletate le formalità di rito, con la richiesta di nome, rango e paese, per persuaderla subito all’inutilità di una resistenza che avrebbe causato solo gratuito dolore a lei e disagio a lui, esibì gli strumenti della tortura, credendo di impressionare i fragili sensi di una donnicciola, e ignorando di trovarsi di fronte a una determinazione restia a cedere. E come se non bastasse, con una protervia che nessuno avrebbe potuto sospettare in lei, Giulitta prese ad arringare la gente, accusandola di offrire sacrifici a demoni, così ingiuriando bestemmiando il Dio del cielo e della terra.
“Taci, scellerata! Non basta che ti rifiuti di obbedire agli ordini dei nostri sovrani? Hai anche la sfrontatezza di incitare il popolo a seguire il tuo esempio? Non capisci che in questo modo ti macchi di un doppio delitto, e non mi disponi certo ad avere indulgenza per il tuo stato?” la interruppe il governatore, sorpreso e seccato per quell’eccessiva arditezza di parola.
“E perché dovresti averne? Non ti frenerà mica il fatto che io sia una madre? Che cos’è il sentimento di una madre, paragonato a quello altissimo e sublime che generò nostro Signore Gesù Cristo? E davanti allo smisurato dolore di Maria, cosa vale ogni altro spasimo?”
“Ora te lo mostro io!” urlò il governatore, livido di rabbia e di sdegno. E comandò che fosse condotto il piccolo che precedentemente aveva fatto strappare dalle braccia di Giulitta, per la strana accortezza di non fargli del male durante sacrificio. Nel vedere la madre maltrattata, due tersi lacrimoni apparvero sul ciglio del piccolo Ciro. Il quale, urlando e scalpitando, incominciò a vibrare formidabili morsi ai carcerieri. Senza però riuscire a raggiungere la madre, che intanto, immobile come una statua nella sua tensione esaltata, più che occuparsi della disperazione del figlio, insisteva nel suo ossessivo refrain, richiamando altri tormenti.“Sono cristiana! E nessuno potrà persuadermi a sacrificare al diavolo.”
A questo punto il bambino, vedendo che la supplizio inflitto alla madre era raddoppiato, raddoppiò a sua volta le grida, quasi fosse lui stesso a subire la tortura, suscitando un momentaneo rigurgito di pietà nel nevrotico governatore. Che, presolo in braccio, finse di colmarlo di carezze, accennando addirittura un vezzo di labbruzze simulanti un bacio, così sperando di aprirsi un varco nelle fibre dalla riconoscenza. Ma ancora una volta senza successo: ché il piccolo, ancora più inconsolabile, gli vibrò un’energica testata sul muso, e tentò con le unghie di arpionargli gli occhi. E in soprammercato, non pago di tanta palese ostilità, e a mostrare, se mai ce ne fosse stato bisogno, che era degno figlio di cotanta madre, ne riattualizzò, narrano le fonti, lo speculare rinvio di cantilena.
“Io sono cristiano! Io sono cristiano! Io sono cristiano! Né dagli Atti ci è dato sapere se riuscì a dire di più, mentre sappiamo invece che in contemporanea sferrava fantastiche pedate nelle costole del governatore. Il quale animale (così lo definiscono gli Atti, aggiungendo che non merita di essere chiamato uomo chi non sa perdonare un bambino), brandendolo per il tallone galeotto, lo scagliò allora a fracassare il cranio sui gradini del quartier generale, da dove il sangue schizzò in ogni direzione.Nessuno avrebbe potuto giustificare l’orrore di questa scena allucinante, se non ci avesse pensato la stessa Giulitta: che, di fronte all’accaduto, invece di impazzire, rivolse lo sguardo al cielo con selvaggio fervore.“Grazie a te, o mio Dio, che mi hai concesso di veder morire mio figlio con la corona dei martiri!”
Il giudice, da parte sua, agghiacciato dal suo stesso atto, e nauseato per la disumanità della donna, davanti alla quale vedeva impallidire persino la propria, riversò su lei il castigo che non seppe applicare a se stesso; e ordinò di appenderla per i piedi, e di versarle addosso acqua bollente, mentre le sbraitava ebetemente.
“Sacrifica agli dèi, se non vuoi subire una morte crudele come quella del tuo bambino!”
A cui lei altrettanto ebetemente replicava.
“Non voglio sacrificare ai demoni. Io adoro Dio che ha fatto tutte le cose, e per la cui misericordiosa giustizia mio figlio è stato ucciso. Hai sentito poc’anzi come quel bambino che appena sapeva parlare ha imitato la mia professione di fede? Adesso sono io che intendo imitarlo, per essere degna di lui e del reame dei cieli.”
Il giudice, arreso alla tenacia della follia, ordinò allora di tagliarle il collo e di gettarne il corpo, insieme a quello del bambino, nel pozzo nero dei detenuti. Ma Giulitta, mentre il boia si avvicinava, ebbe ancora il tempo di una preghiera.
“Ti ringrazio, Signore Gesù Cristo, che hai chiamato a te mio figlio, per lavare tramite lui l’empietà del mondo. Ora ricevi anche questa indegna tua serva, e ponila nella dimora eterna, dove ti benedirò insieme a lui.”
Il boia allora le tagliò la testa. Il corpo fu portato fuori città, e gettato insieme ai resti del bambino.