Enzo Jannacci e Franco Califano. Se ne sono andati assieme. Forse, tenendosi per mano. Chissà? Nel loro pentagramma l’anima popolare di due città, due mondi, storie di vita e di passioni vere in una Italia che cercava la via del riscatto. Vi fu un tempo in cui il canto di Enzo accompagnò i battiti del mio cuore nell’alternanza di delusioni e speranze. Scendevo a Milano in littorina (questo l’appellativo, nei primi anni sessanta, dell’espresso Sondrio-Milano) ogni lunedì o martedì del mese per presentarmi puntuale all’appuntamento a via del perdono, la sede dell’università statale di Milano. Avevo un sogno: vincere la terza scommessa della vita. Completare gli studi con la laurea in scienze politiche, dopo aver terminato con successo gli esami di stato all’istituto tecnico De Simoni di Sondrio e aver frequentato, ancor prima, le tre medie a cui si accingeva attraverso una formidabile selezione , che era di ceto e di classe, e di cui andavo fiero, eternamente riconoscente a quella meravigliosa maestra, per tutti, la Spengler, che aveva forgiato il carattere del giovanetto irrequieto.
Ricordo gli incontri tra ella, divina educatrice, e i miei genitori piuttosto scettici al pensiero di perdere l’aiuto del ragazzo nel lavoro dei campi, nonché preoccupati dei sacrifici necessari per l’accesso dell’unico maschio agli studi superiori. Tant’è: uno scoglio e poi l’altro e mi ritrovo a Milano per l’ultima sfida, la più dura e impervia che io avessi mai immaginato. Già, la littorina per portarmi laggiù, in tasca qualche centinaia di lire e un mazzo di libri sdruciti a tracolla. Vivevo al Carrobbio, la piazzetta tra via via Torino e corso ticinese a pochi passi dal duomo. Dormivo in un sottotetto del palazzo al sesto piano a cui si accedeva salendo, se ben ricordo, gli ultimi due piani attraverso una scaletta di legno a chiocciola. Da lassù, accompagnato talvolta dallo squittio del compagno topino potevo scorgere i tetti nerastri di fuliggine della Milano invernale del tempo e osservare l’odioso bugigattolo in cui mi rintanavo ogni sera aspettando di servire il distratto motorista notturno rimasto all’asciutto nel cuor della notte.
Sbarcavo il lunario vendendo benzina al distributore il cui proprietario gestiva l’adiacente caffè e lo stesso palazzo. Che vita! Ragazzo. Un guaio ammalarsi, doversi assentare e perdere quindi il diritto all’alloggio a cui era legato il lavoro notturno. Talvolta portavo da casa , avvolti da mamma in un panno, i resti del desco paterno: la polenta rimasta, un po’ di formaggio, una mela e non so più quant’ altro. Se Mario, il gestore, mi chiamava all’appello , la domenica restavo in città e a sera mi affacciavo a piazza del duomo mischiando il mio dire in quei capannelli formati per di più da tanti straccioni intenti a discutere di tutto e di niente: di politica, sport, di cinema , o lascia e raddoppia, di presunte imprese amorose, di guerra e di pace nel tempo in cui una cortina di filo spinato divideva l’Europa e ognuno si schierava da una parte o dall’altra. Io stavo da quella sbagliata. Eppure ci credevo a quel sol dell’avvenire che fece sognare milioni di uomini e donne. Due anni durò quell’impresa, disperata in partenza, più ardua del kappa due, la cima a cui si aggrappò, dominandola, l’Achille della mia terra Valtellina.
Un giorno di febbraio , così gelido da rendere l’oblò del sottotetto una lastra di fiori di ghiaccio, decisi di farla finita. Scesi avvolto dal vecchio pastrano e deposi le armi con cui avevo invano cercato di raggiungere il sogno. Mi avrebbe aspettato, di lì a poco, il caldo del deserto africano. Se ripenso a quel tempo non posso che amare quell’Enzo Iannacci che cantò la Milano della mia gioventù. Del barbum o del povero cristo che incontravo nel misero bar latteria dividendo con lui i due tuorli di uova in carrozza. La Milano di Brera e del Gianni Rivera. La Milano dei palazzi coperti da uno strato di polvere nera. Vengo anch’io?. No tu no. Ma perché? Perché no. Eppure, caro Enzo, anch’io ho portato in quegli anni delle misere scarpe da tennis.