Ma proprio nel bel mezzo di questa stagnazione del sentire, quando già si illudeva di essere in equilibrio tra memoria e disperazione, a conferma di quanto le cose imprevedibilmente possono mutare, e che nessuno sospetta le insidie del domani, ecco che Costanzo, reduce dall’incontro di Mediolanum con gli augusti, gli aveva comunicato l’intenzione di Diocleziano di provvedere a uno sposo per Valeria. Allora Aurelio, pur da tempo rassegnato a perderla, di fronte a un’impossibilità che non dipendeva da lui, aveva sentito ridestarsi la smania di riconquistarla. E ignorando che simili ravvedimenti non riescono quasi mai, siccome una donna che magari dopo lungo rimuginare ha preso una decisione, quale che ne siano le ragioni, raramente retrocede, speculò che non tutto era perduto, e che forse sarebbe ancora stato in grado di pronunciare le parole del prodigio.
Per quante esperienze avesse già alle spalle, il tribuno non considerava abbastanza quanto i propositi delle persone, pur in poco tempo, possono mutare; e chi appena ieri manifestava una consuetudine di tenerezza, repentinamente può affiggere una freddezza sfigurata, appellandosi ai più sofisticati cavilli. Ignaro pertanto dei risucchi di quella maledizione di Eraclito che tanto aveva corroso Diocleziano, scrisse a Valeria una lettera che di certo non avrebbe spedito se non fosse stato all’oscuro della sua evoluzione. Nemmeno del proprio cambiamento era abbastanza in chiaro, del resto: siccome anche questo non possiamo coglierlo in astratto, ma solo in rapporto a situazioni specifiche che ne facciano risaltare lo scarto. Solo quando cozziamo in un’accusa non del tutto gratuita, o in un rimprovero meritato, siamo spinti a chiedercene il motivo, invece di blandamente giustificarci. E potrebbe anche essere vero che non abbiamo commesso nulla di particolare, e che ci siamo comportati non diversamente dal solito: cionondimeno l’errore risalta già dal semplice raffronto con la situazione di riferimento, dal peccato originale della variazione, che ci rende dissimili da quelli che fummo. Per questo Aurelio, benché sapesse perfettamente che era stato lui stesso a troncare sul nascere l’idillio con Valeria, per attenersi alla consegna ricevuta, nel ritornarci su col pensiero, aveva esaminato la sua fermezza sotto una prospettiva diversa. E gli era più volte capitato di chiedersi se a frenarlo, più dell’onore, non fosse stata piuttosto l’aspettativa di un plauso; e se non avesse accantonato un sogno d’amore solo per la tirannia di un orgoglio capace di insultare agli affetti, inducendolo a un errore gravido di conseguenze.
Benché per scaramanzia si fosse preparato al peggio, la risposta di Valeria gli era in effetti giunta a sorpresa, a comunicargli quanto non avrebbe creduto, poiché non aveva riflettuto abbastanza sul fatto che la lontananza ci muta, se non in assoluto, almeno nella modalità dell’interazione; e che gli incontri diradati non deteriorano soltanto i lineamenti corporei, ma la sintassi stessa della comunicazione. Aurelio, tratto in inganno dalla staticità del sentire nei riguardi della moglie morta, non aveva compreso che là si confrontava con un’inalterabilità che vincolava la memoria all’ultimo stadio del suo amore; mentre questo non vale per i vivi, che continuano a modificarsi, e di riflesso alterano anche l’idea che ce ne facciamo per supposto cambiamento. Sicché anche in absentia, a seconda di quanto proiettiamo nel loro vissuto, spostiamo l’immagine che ne abbiamo, e con essa anche gli impulsi nei loro riguardi. Per questo, se quasi mai si prova avversione per una persona morta, assolta definitivamente da ogni colpa o errore, non esitiamo a rinnovare rabbia o accusa, a seconda dei risconti che ne riceviamo, verso chi supponiamo ancora in grado ferirci o danneggiarci. E di conseguenza anche le disposizioni mutano; e quand’anche coccoliamo il passato con nostalgia, non è mai la persona del presente che bramiamo, e che magari invece cordialmente detestiamo. Il fascino che ancora può emanarne non ha niente a che fare con chi intanto ci è diventato estraneo, ma solo col rimpianto di una favola dissolta. Ciò che ancora vagheggiamo non è la forma di oggi, che abbiamo soppiantato e rimosso, ma quella intemporale che legammo strettamente a noi. Il che significa che rimpiangiamo, in definitiva, soltanto la nostra età perduta, di cui quel fantasma era bandiera. E se non rinneghiamo niente, anche quando siamo ben rassegnati a lasciarla andare, e noi stessi procediamo in un’altra direzione, ciò accade perché, senza più incorrere nell’errore di crederla insostituibile, che è solo fonte di incomprensione e azioni talvolta irrimediabili, siamo ormai persuasi a seguire la via che ognuno ha il diritto di percorrere, senza rinunce imposte o dovute.
Nella sua risposta accorata ma scoraggiante, Valeria, prona alla volontà paterna, si diceva rassegnata a un matrimonio richiesto dalle circostanze e dal suo stato, anche se aveva trovato conforto nella fede cristiana: erroneamente convinta che quella di Aurelio fosse ancora salda. E ancora più erroneamente confidando nella salvezza dei surrogati, che offrono illusorie fughe laterali, quando la via da percorrere è tutta in salita, e quasi mai prospettano una valida alternativa, se prima o poi occorre comunque saldare i conti in sospeso. Persuasa poi che non si sarebbero più incontrati in questa vita, mentre lo pregava di non cercarla più, gli riconfermava, a difesa di una debolezza temuta, il suo patto di fedeltà, con la garanzia che l’avrebbe custodito in una dimensione inalterabile, da cui nessuno l’avrebbe strappato, come accade di esagerare solo nell’esaltazione della gioventù. Ma convinta che la loro separazione definitiva, oltre che dalle circostanze, dipendeva da una volontà che si imponeva come un destino deliberante, mostrava di aver ancora compreso, ben oltre la sua personale esperienza e a sue spese, quanto gli uomini contribuiscano a rendere più aspra la solitudine, e a rinunciare a quel minimo di balbettio che scandisce il dialogo tra i viventi. Così che, oltre le bizzarre schegge del caso, accumulano male su male, e rancore su rancore, per farcire un’esistenza, non di complicità e solidarietà, ma di avversione e sconforto. E solo raramente manifestano pentimento o revisione; solo nei film ammettono di avere un giorno sbagliato; mentre molto più spesso ergono transenne di noncuranza e ostilità, o scavano fossati così ampi da vietare persino un cenno di cordialità diplomatica. Poi il tempo passa; le mutate condizioni ci distolgono; la quotidianità ci spegne o ci ottunde nella routine, che chiamiamo serenità, e che altro non è che un rinnovato patto con la morte.