Spesso alcuni pretesti spingono, anche inconsciamente, la nostra attenzione verso riflessioni non sempre immediate o propriamente comuni. Capita quando, per un motivo o per un altro, riusciamo a cogliere la differenza, a volte sottile, altre decisamente netta, tra quelle che credo si possano definire due delle categorie del nostro pensiero: essere e apparire.
Ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, ciò che noi pensiamo di noi e ciò che vorremmo che gli altri pensassero di noi, reale e desiderato…sono sempre concetti in antitesi tra di loro? E se sì, quanto e in che modo questo può compromettere negativamente i rapporti interpersonali, oltre che, in primis, il vero dispiegarsi della propria personalità e il giusto rapporto di ognuno con il proprio io?
Il problema, forse non l’unico ma certo il principale e subito evidente ad un’attenta analisi in merito, non può che risiedere, prima che in noi stessi, nella società in cui viviamo e nelle regole che la dominano. Certo, la società altro non che è l’insieme dei cittadini, così come le regole che la dominano altro non sono che quelle che noi stessi abbiamo contribuito a creare…eppure, più che solo fautori, in tanti si ritrovano invece ad essere solo vittime di un contesto che ha portato nel tempo a questo evidente scollamento tra ciò che si è e ciò che si vuole dimostrare di essere. Ma cosa determina tale distanza? E come si risolve il conflitto tra le due opzioni quando esse non coincidono?
Il mondo dell’apparire, con le sue leggi e i suoi modelli è diventato il grande avversario della libertà di essere e di esprimersi, perchè ritenuto fondamentale dai più e reso necessario dalle contingenze quotidiane.
E’ innegabile che nella società attuale le apparenze contino spesso più dell’essere, dando vita a modelli di omologazione del comportamento, quando non anche del pensiero, su larga scala, modelli che portano ad un’identificazione di massa con certi stereotipi “vincenti”. Più o meno, siamo tutti, o quasi,vittime delle incongruenze di una società corroborata dai massmedia, che insinuano modelli di vita basati sulla superficialità, sulla prevalenza del modo di apparire e dell’immagine che si riesce a far passare di sé, spesso a scapito dell’essere reale di ogni personalità, che passa inevitabilmente in secondo piano, riducendo così la ricchezza, i vantaggi e i benefici insiti nella variegata diversità di modelli ed esempi di cui ognuno, nella propria unicità, potrebbe esser fautore.
L’aspetto esteriore è solo una parte del problema, alimentato dal mondo dello spettacolo, che ha fatto dell’apparire la propria carte vincente, dettando mode cui diventa essenziale uniformarsi per non esser tagliati fuori; ma è, forse, l’aspetto meno grave se lo si paragona a quella perdità d’identità interiore che rappresenta una delle cause di smarrimento delle nuove generazioni.
Chi vuole apparire per quello che è al di là delle mode e delle tendenze prevalenti rischia di rimanere emarginato dal “gruppo” e questo diventa grave in una società in cui l’individualità paga troppo spesso il pegno dell’impopolarità; chi vuole apparire per quello che è e seguire solo i propri dictat, schierandosi contro, o anche solo criticando, le posizioni dei più, resta spesso vittima di un isolamento, anche intellettuale, che ne disperde la voce sol perché diversa dall’eco comune.
Nella società di mezzo secolo fa forse il dilemma “essere-apparire” sarebbe stato risolto a favore del primo; non più così oggi, quando l’affermazione di sé stessi passa in primis dall’inevitabile apparenza che si da di sé. Nella speranza che, dopo l’ostentata apparenza, non si sia perso quello che di sé si intendeva affermare. Perché assurdo sarebbe oggi, dare la stessa risposta che poteva valere mezzo secolo fa: oggi la regola è apparire, essere senza bisogno di apparire è un privilegio riservato a pochi, quei pochi la cui personalità è così forte da non scendere a compromessi né con mode né con giudizi alcuni; tutti gli altri, in una società che seleziona a tutto spiano, senza aver avuto il tempo o il modo di conoscere a fondo, devono apparire secondo quelle che sono le regole comuni, prima di poter dimostrare veramente ciò che in realtà sono.
La nuova risposta all’annoso dilemma passa dunque dalla sostituzione di quella minuscola congiunzione che unisce i due termini: “essere o apparire?” si risolve cosi nell’esigenza odierna di “essere e apparire” implicando un difficile e pericoloso equilibrio che consenta di non perdere l’essenza di sé mentre si cerca la giusta chiave per arrivare agli altri, seguendo i modelli e i linguaggi prevalenti.
Essere e apparire possono quindi si coesistere, purchè l’obiettivo finale sia l’essere: apparire può giovare ad iniziare un percorso, ma per continuare su qualsiasi strada bisogna poi puntare sull’essere, l’unica cosa che possa fare la differenza tra le varie espressioni degli identici modelli, (inculcati dai media e richiesti dalla società), in concorrenza tra loro.<
Non ultima, l’apparire genera una difficoltà di interazione e di comunicazione tra le persone che non va sottovalutata, contribuendo a formare quelle “solitudini” di cui restano vittime i “diversi” i non “omologati” , gli emarginati delle nostre società; a furia di apparire, spesso si perde il giusto contatto con la realtà, diventa difficile capire e scindere le persone reali dalla loro immagine e tornare indietro diventa difficile, abituai come siamo a proporci per come ci sembra più opportuno o necessario per costruire quell’immagine che vogliamo dare di noi.
Nello sforzo dell’omologazione trascuriamo di scoprire e curare ciò che siamo e nel momento, inevitabile, in cui la costruzione di un’immagine fondata sulle apparenze si sgretola, ci ritroviamo vuoti, a fare i conti con la frammentazione del nostro “io”, a chiederci chi siamo in realtà e che posto abbiamo realmente nella società, allo stesso tempo autori e vittime di quel disorientamento e di quell’inadeguatezza che caratterizzano le ultime generazioni.
Anche se l’apparire predomina c’è da sperare che i suoi effetti secondari riescano ad innescare un cammino a ritroso verso la ricerca della propria autenticità e l’espressione della propria interiorità, per non trovarsi condannati a vivere, come l’uomo pirandelliano di “Uno, nessuno, centomila”, le estranee personalità in cui si consuma l’eterno dramma dell’apparire.
Isabella La Rocca