Pur avendo preso con sé il figlio, dopo la risolutiva rinuncia di Elena, Costanzo non ebbe il tempo di occuparsene, come avrebbe desiderato, impedito dalla frenesia di eventi che non gli davano respiro. Dapprima, con la mente ancora piena di strascichi dell’addio, c’era stato il trambusto delle nozze; poi, il 1° marzo, la non meno impegnativa parata della nomina. Calorosamente acclamato dalla folla di Mediolanum, dopo un pasticciato panegirico di Massimiano, che ne aveva esaltato il coraggio e lo aveva additato come colui che avrebbe restituito all’impero le dilette lande britanniche, Costanzo seppe che l’incarico di domare la rivolta di Carausio toccava proprio a lui.
Gli stava accanto, durante la cerimonia, la sposa Teodora, e in posizione più defilata un ragazzo, la cui espressione ingrugnata faceva un curioso contrasto con quella ferma e serena di Costantino. Si trattava di Massenzio, il figlio di Massimiano, che, visibilmente seccato dall’auto elogio del padre, si teneva vicino alla madre, in gravidanza avanzata. A Costanzo non era mai piaciuto quel ragazzo, del quale più volte aveva rilevato la selvatichezza: e che ora stava di fronte a Costantino, senza sapere che proprio con lui un giorno sarebbe giunto alla resa di conti fatale. Né tantomeno poteva indovinare che il feto annidato nel ventre di Eutropia, l’ancora informe Fausta, avrebbe subito la stessa sorte.
Come effetto della nomina, riconosceva che, in maniera simmetrica e contraria, gli era andata meglio che a Galerio. Malgrado il penoso distacco da Elena, aveva ottenuto una sposa desiderabile, che ne ricambiava il sentimento; mentre l’altro cesare, che pure senza remore si era sbarazzato della spettrale moglie a suo tempo impostagli dalla madre, era toccata Valeria, da cui non poteva certo aspettarsi slanci spontanei. Né le cose sarebbero andate meglio con la successione: per ironia e capriccio del caso, la figlia di Galerio un giorno avrebbe sposato proprio quel ringhiosetto di Massenzio, eterno perdente; mentre dai suoi lombi, oltre a Costantino, sarebbe disceso anche Giuliano.
Quanto alle competenze di controllo, a Costanzo furono affidate la Spagna, la Gallia, e soprattutto la Britannia, ancora in mano a Carausio, contro cui preparava la spedizione. Ma siccome i confini renani non smettevano di essere turbolenti, già in quell’estate del 293 gli toccò respingere i Camavi e i Frisoni, stanziati tra Schelda e Reno, e che avevano fornito consistenti aiuti all’usurpatore: a conferma che la difesa dei confini era connessa con la sorte britannica, e che occorreva un’azione congiunta nei due settori. Per questo, accanto alla costruzione della flotta di Gessoriacum, ormai giunta a buon punto, Costanzo ne stava allestendo una seconda sulla Senna, intenzionato a chiudere definitivamente la partita.
Da ben sette anni, infatti, durava la secessione isolana: fin da quando l’audace condottiero aveva abbandonato le vesti del console per quelle dell’imperatore. Fatto gravissimo, che aveva indotto Massimiano a progettare l’invasione della Britannia, poi rinviata per via di un naufragio che l’aveva costretto a negoziare una pace umiliante. Così Carausio aveva potuto continuare la sua azione, con l’intenzione di creare in Britannia uno stato romano indipendente, capace di arginare le tendenze centrifughe delle diverse etnie, senza trascurare i rapporti economici e culturali con la capitale. Per questo aveva fatto coniare, oltre al famoso billone, una serie di monete in oro, su cui compariva accanto alle effigi di Diocleziano e Massimiano, dei quali si considerava “fratello”.
I due augusti, invece, indignati per tanta audace promiscuità, avevano premuto sull’esigenza della riconquista; e Costanzo, messosi subito all’opera, bloccando con una diga Gessoriacum, e costringendola alla resa, aveva tanto incrinato il prestigio di Carausio, da favorire la ribellione del suo luogotenente Alletto. E infatti quest’ultimo, esponente di una fazione più estremista, approfittando del momento di disorientamento del capo, aveva attentato per la seconda volta, e con successo, alla sua vita, per poi proclamarsi imperatore in sua vece, senza nemmeno fare atto di formale obbedienza agli augusti.
Per Costanzo era stato quasi un affronto. E se non aveva potuto condurre a termine lo scontro decisivo con Carausio, che pure stimava come valente soldato e persona dignitosa, a maggior ragione intendeva regolare i conti con un vile opportunista. E se mai prima aveva nutrito dubbi, adesso meno che mai intendeva rinunciare alla ripresa dell’isola, per non farla deperire tra le mani di un infame. Troppo contava la Britannia per l’impero. Se alla determinazione con cui Carausio aveva lottato per la sua indipendenza non era stato estraneo il calcolo della ricchezza di minerali e di pascoli, proprio per difendere queste risorse ne aveva fortificato le frontiere contro i Caledoni del nord; aveva richiamato dal continente artisti eccellenti; aveva coniato medaglie che ne attestavano il gusto e l’opulenza; aveva insegnato ai giovani l’arte della navigazione: e per tre anni aveva controllato le foci del Reno e della Senna, veleggiando lungo le coste fino alle colonne d’Ercole.
Ma non solo per questo. Costanzo sapeva che la strategia di Carausio tendeva a creare uno stato romano indipendente, che potesse contrastare le tendenze centrifughe dell’isola. Sotto la sua amministrazione la Britannia aveva assunto l’aspetto di una ridente contrada, protetta dallo sciacallaggio degli amministratori come dalle incursioni di tribù senza legge. E Carausio, cinto dell’alone di una figura leggendaria, aveva veramente creduto di salvaguardare i valori romani, illudendosi erroneamente che altri condividessero il suo sogno. Più di un attentato aveva già subìto: ma, senza scorgervi malafede o meschinità, aveva graziato i responsabili, confidando di conquistarne la gratitudine: finché Alletto non era riuscito nel suo intento.
Nei due anni seguenti, quest’ultimo ne aveva cancellato l’operato. Senza più fare allusioni alla riconciliazione con Roma, aveva preso a battere una propria moneta, da dove aveva fatto sparire tutte le allusioni messianiche al paradiso pagano, sostituendole con uno stile più convenzionalmente adibito alla funzionalità del commercio; e aveva fissato il quartier generale a Londinium, pensando che i romani si fossero rassegnati alla rinuncia. Non di questo parere era invece Costanzo. Che avrebbe combattuto Carausio, di cui pure rispettava la statura; e che a maggior ragione intendeva farlo con quell’infame di Alletto. Tanto più che ormai, dopo anni di cura e lavoro, la grande flotta era pronta a salpare con due squadre: una comandata personalmente da lui, e l’altra dall’esperto Asclepiodoto, in posizione ausiliaria.