È primavera, la natura è un risveglio di mille colori. I giganti della strada, sin dai tempi di Bartali e Coppi, di Koblet, Gimondi, il cannibale Merckx e Pantani, il pirata, rinnovano la sfida di sempre.
È primavera e mentre scrivo si corre il giro delle Fiandre. Come a dire: una leggenda del nord. Una infernale cavalcata di 260 chilometri frammisti di tratti di strappi all’ insù e di duro pavé, il ciottolato che ammorba i muscoli e acceca la vista sino a farti mancare il curvone oltre il quale finisce la tua corsa laggiù nel fossato. Un corridore è partito all’attacco seminando la ciurma affannata. Gli resistono in tre. Li acceca con un ultimo guizzo a rinnovare i passati trionfi. È Fabian Cancellara, figlio di emigrati lucani che hanno cercato quassù speranza e conforto di una vita migliore.
L’idolo della Svizzera delle due ruote, è uno di noi. E noi ne siamo orgogliosi come se, sulla maglia dalla rossa e crociata bandiera, portasse anche un po’ dell’azzurro o il tricolore della nostra bandiera. Un balzo all’indietro mi riporta al mille novecento cinquanta tre. Mamma mia! Mezzo secolo e più. Giovanetto, appollaiato sul muro innevato dell’ultimo tornante dello Stelvio, ho udito il rantolo di Fausto Coppi. Ho osservato i suoi occhi spenti come quelli del cervo morente impallinato dal malvagio bracconiere della valle del Livrio. Ho fissato eternamente ai miei occhi quella maglia biancoceleste tesa a coprire il gonfiore del torace nell’immane sforzo di raggiungere la meta. Lui, il grande Fausto, la testa alta all’insù, guardava alla vetta come il naufrago allo scoglio roccioso che appare laggiù nel bel mezzo dell’onda schiumosa. Forse e persino un miraggio. Nel mentre, un sogno che premia la lotta per sfuggire a Caronte nell’abisso degli inferi.
In quell’attimo decisi che anch’io, un giorno, avrei aggredito i tornanti dei passi della mia Valtellina ripetendo le imprese del grande campione. È l’anelito di ogni ragazzo guardare alla vita con dentro quel sogno che mai, se non per magia, benevola e astrale, trova poi realizzato. Pochi anni dopo, al compimento della scuola media di allora, assunto in una impresa del luogo per il periodo estivo, raggranellai le lire sufficienti per l’acquisto di una bicicletta Legnano d’occasione. Non era il massimo, per il ragazzo, ai cui occhi era impresso il colore tra il bianco e l’azzurro della bici di Fausto. Ma era pur ciò che serviva per iniziare la grande avventura. La vita mia da allora: lo studio, l’aiuto ai genitori nel lavoro dei campi e il resto, a parte le ore di sonno, in sella e ai pedali a scalare le rampe che portano a Chiesa, San Giuseppe e Chiareggio, o all’erta sterrata verso il sasso del moro. Talvolta, la domenica, se il cielo era terzo e la mamma, oltre all’enorme pagnotta ripiena di salame e formaggio, aveva riempito la borraccia da una miracolosa mistura – caffè della pentola, il vino pungente dall’acerbo sapore del luogo e cucchiaiate di zucchero – scendevo verso Morbegno per poi affrontare le rampe verso i duemila del passo San Marco.
Ventisette chilometri di pura ascensione da fare impallidire chiunque non fosse attrezzato e allenato da anni allo sforzo. Ricordo il passaggio al monumento agli alpini, le selve arricchite dal paterno castagno, l’apparire, all’uscita dal curvone nel bosco, del villaggio Albaredo, la casupole come avvinghiate alla roccia e attorno alla Chiesa a rendere omaggio e devoto rispetto. Rivedo la strada, all’improvviso sterrata, che va verso l’alpe e poi l’ultimo strappo, tremila metri d’angoscia, per il ragazzo stremato e senza più una goccia della materna mistura né un tozzo di pane. Ho vinto e pur sento una strana tristezza legata alla fine del sogno. Ho vinto e già la festa è finita, come scrisse il divino poeta ( Giacomo Leopardi ) nel sabato di un antico villaggio. Non ho con me una protettrice mantella, né guanti, né calzettoni a proteggere i muscoli induriti dallo sforzo dell’ascesa e dal freddo pungente dei duemila del passo San Marco.
Non vi dico il terrore al ritorno verso il fondo della valle amica. Le labbra assalite da un improvviso tremore, il tintinnio perpetuo dei denti, le mani violacee e rigide che più non afferrano il corno al rovescio del mezzo per guidarlo alla meta. È un attimo e mi ritrovo disteso tra il muschio e gli sterpi oltre il muro del tornante in cui, tremebondo, ho mancato la svolta. Non vi dico lo stato, il volto, i lividi, il misto di sangue terraneo a coprire i lembi di maglia rimasti attaccati a quel corpo ammaccato. Apparve un gran vecchio dal folto pelame, il cappello d’alpino, la saccoccia, il bastone: sembrava mio padre. Un miracolo: oltre a quanto descritto, nessuna frattura e nulla di grave. Mi aiutò a risalire la china. Raccolse la mitica legnano, oramai un ammasso ferroso. La depose nell’ampio furgone dell’Ape, Il camioncino dei contadini d’allora, mi chiese notizia del dove e mi condusse alla meta. Finì lì e per molti anni, l’avventura del ragazzo ciclista. Ripresi venti anni più tardi il gusto di rinnovare la sfida. Salii tante volte al passo San Marco per poi tuffarmi a capo fitto verso San Pellegrino e poi Sotto il Monte, quel luogo che sembra, in ogni suo anfratto, parlarti di un uomo vestito di bianco.
Penso a lui, a Giovanni, il papa nato quassù nel grembo delle Orobie. Le alpi in cui, anch’io, ho cercato la pace che lui proclamava al mondo nell’ era dei vili e dei bravi. È bello, ormai vecchio, pensare a quel tempo. La sfida col monte San Marco è finita. Rimane il ricordo dell’ultima impresa.