Il nuovo cinema d’autore si fregia di due grandi nomi, sono Fabio e Damiano D’Innocenzo, due fratelli gemelli italiani che, con molta umiltà e genialità, hanno mostrato che il cinema italiano ha ancora tantissimi prodotti di qualità da offrire. Abbiamo avuto la possibilità (e il piacere) di parlare con Fabio D’Innocenzo di Favolacce, il film attualmente presente allo Zürich Film Festival (ZFF) e in proiezione nelle sale svizzere a partire dall’8 ottobre. Un film, vincitore di numerosi riconoscimenti, consigliatissimo a chi ama un cinema non banale, di forte impatto e grandi ambiguità
Favolacce è il vostro secondo film di successo dopo La strada dell’abbastanza e col quale vi confermate tra i migliori registi del panorama cinematografico italiano attuale. Vi aspettavate questa replica di successo?
In realtà no, però sarebbe un peccato scrivere una storia e realizzare un film per poi immolarla nel mondo del successo o dell’insuccesso. Si scrive una storia per poi affidarla al pubblico, che la guarda e la fa propria. Per me il film è più di chi lo guarda che di chi lo fa. Ti parlo prima di tutto da spettatore più che da regista, perché sono un grande fruitore di film. Ammetto che fare un film come Favolacce è molto rischioso e il fatto che non sia indifferente alla critica e al pubblico è di grande stimolo.
La genesi di questo film risale a quando avevate l’età di 19 anni ma siete riusciti a realizzarlo adesso, dopo aver superato i 30. A distanza di questi 10 anni, Favolacce è lo stesso film che avete pensato allora?
Il panorama italiano sociale e politico di questi ultimi 10 anni è rimasto assolutamente invariato. Siamo stati fortunati dal punto di vista dalla narrazione del nostro film ma assolutamente sfortunati a livello umano: se prima c’era Berlusconi adesso c’è Salvini… quindi siamo rimasti nella mxxxa, come si dice!
Il film, inoltre, si costruisce attorno a degli archetipi e a dei simboli, non è un film di cronaca ma simbolico e per questo il risultato è molto fedele a quello che avevamo pensato. La prima evoluzione però è stata dettata dal fatto che avevamo persone in carne ed ossa che hanno dato l’anima ai nostri personaggi e che sono riusciti a restituircela in maniera rilevante.
I bambini erano determinanti. Abbiamo fatto un casting infinito perché i bambini dovevano essere anche consci di lavorare con le astrazioni. In questo film i bambini non fanno da sfondo, come spesso accade nei film, ma sono un punto di vista nuovissimo, soprattutto sono il nostro sguardo sulla vicenda. Favolacce rischiava facilmente di essere un film freddo, in effetti è un film che ha a che fare con la freddezza, ma non volevamo entrare nel campo dell’asettico e i bambini ci hanno permesso proprio di fare questo. Posso affermare che, pur rimanendo fedele alle nostre idee, siamo più felici del risultato di quello che avevamo immaginato.
A proposito degli attori, vi sono state determinate caratteristiche che vi hanno indirizzato alla scelta dei protagonisti?
Sì, assolutamente. Il viso era importante e quello che l’attore trasmetteva col viso ad una prima occhiata è stato fondamentale. Abbiamo lavorato molto con i simboli ancestrali e con i tratti degli animali: per esempio per i personaggi di Elio Germano e Max Malatesta abbiamo pensato a dei predatori, con i loro nasi aquilini e i tagli dei capelli molto squadrati, che richiamano proprio le aquile. Il personaggio di Gabriel Montesi, Amelio, padre di Geremia, che vive più isolato, assomiglia invece in maniera simbolica più alla scimmia, tra gli adulti non ha retropensieri e sembra il più disperato, il peggior padre che si possa avere ma, proprio come fa questo animale, protegge il suo ambiente e con i suoi ragionamenti semplici e molto lineari alla fine è l’unico che riesce a salvare il proprio figlio. Lavorare molto con i volti ci ha fatto capire chi era cosa, un po’ come si faceva con quel vecchio gioco, Indovina chi.
Poi abbiamo certamente preso in considerazione le abilità recitative, anche se era scontato che chi avevamo scelto era all’altezza del ruolo. In generale tutti gli attori sono stati accompagnati da noi stessi, anche i bambini per i quali non abbiamo utilizzato l’acting coach. Questa è una figura che nel cinema solitamente aiuta i registi a spiegare le parti ai bambini, ma in queste spiegazioni ci sono sempre delle semplificazioni e non è quello che cerchiamo. Noi non cerchiamo mai una risposta, cerchiamo invece di entrare in un labirinto di domande e insieme ai bambini è così che abbiamo lavorato. Abbiamo voluto rischiare e ne siamo usciti tutti arricchiti, prima di tutto i bambini, che hanno avuto un’esperienza vera, e noi che abbiamo avuto il piacere di veder nascere degli attori dove non ci sono ancora degli adulti.
Solitamente il pubblico odia o ama i protagonisti dei film in base alle caratteristiche, ai comportamenti e alle scelte del personaggio. Per esempio, il personaggio di Elio Germano, Bruno Placido, il padre di Dennis e Alessia, è un personaggio che si fa odiare facilmente. Spiazza, invece, il personaggio di Vilma, interpretato da Ileana D’Ambra, che pur essendo un personaggio difficile, ricco di criticità e che fa scelte estreme, alla fine non si riesce ad odiare…
Sì è vero. Lei rappresenta la terra di mezzo tra bambini e adulti, perché è adolescente ed è una ragazza madre, e questo suo essere “in obliquo” ce la fa apparire come un corpo estraneo. È un personaggio che si trova a navigare nel mondo degli adulti e dei bambini e riesce a comprendere un po’ di entrambi, anche se chiaramente è vittima dell’ignoranza e della sua paura che è un po’ il tema principale di questo film.
Il personaggio di Vilma era molto complicato e il fatto che Ileana D’Ambra non fosse un’attrice professionista, ma lo è diventata dopo questo film, ci ha permesso di uscire fuori dai soliti schematismi con questa resa ricca di contrasti.
Dunque Favolacce può essere definito un film sulle paure e sulle debolezze dell’uomo?
La paura di aver paura credo che sia il tema principale di questo film: la paura di ammettere di non essere in grado di fare alcune cose, di dover imparare, di non essere all’altezza, di non essere pronti, di ammettere i propri fallimenti…
L’ansia da prestazione è un altro importante tema, come il fatto che i ruoli in famiglia non vengano vissuti ma recitati. I padri interpretano il ruolo di come pensano che debba essere un padre, invece di viversi la famiglia e vivere tutto in maniera più naturale. Questa sorta di cameratismo all’interno delle famiglie schiaccia i personaggi e li volgarizza, li rende cupi. Davanti a tutto questo i bambini scelgono invece di scendere dal palcoscenico della vita come presa di coscienza morale e simbolica.
I bambini decidono, in maniera forse estrema, di rifiutare i modelli imposti dalla società?
C’è un tema molto importante in Favolacce che è quello di cosa vuol dire essere maschio. Questo machismo volgare sviluppato tra gli uomini è una conformazione che ci è stata imposta nell’ultimo ventennio, fatto di una televisione molto volgare con status quo assolutamente ridicoli che hanno monopolizzato il concetto di maschio e che hanno privato della scelta di cosa vuol dire essere maschio. Io che mi considero una persona molto femminile e incapace di essere totalmente maschile, e lo dico con grande fierezza, in fase giovanile ho sofferto tanto questa imposizione perché o facevi parte di quel modo di essere maschile o eri fuori, eri considerato strano. Per questo penso che Favolacce sia una riflessione su quanto il seguire i modelli teorici, che ci offre la televisione o la politica, sia un autogol clamoroso perché ci priva assolutamente della nostra identità.
Da dove traggono ispirazione le vicende umane di Favolacce?
Il vissuto ci condiziona moltissimo, per forza di cose. Siamo cresciuti nella provincia come i personaggi di Favolacce, io vedo dei lati caratteriali che mi appartengono, sia nei bambini che negli adulti, conosciamo la falsità e questa apparente tranquillità che in realtà nasconde molto di più, però non posso dire che è un film autobiografico. Favolacce è il riassunto dei mondi che abbiamo vissuto e immaginato, una sintesi ben riuscita tra verità e fantasia, non per niente si chiama appunto “Favolacce” e sin dal titolo manifesta l’intenzione di prendersi anche delle licenze poetiche verso la vita. E questo ci è sembrato il registro più giusto, anche perché sarebbe potuto risultare un film un po’ più respingente, se fosse stato più realistico come messa in scena. Invece il film ti accompagna con questo ritmo favolistico e sognante e ti permette di arrivare alla fine con una buona partecipazione emotiva, altrimenti, se avessimo usato un taglio più largo, sarebbe risultato più freddo e non sarebbe trasparito tutto il nostro amore verso i personaggi, anche quelli che sbagliano, anzi soprattutto loro, e questo andava fatto accompagnando lo spettatore attraverso un clima più veritiero.
Il film si apre e si chiude con degli eventi di cronaca. Quanto la cronaca attuale ha avuto peso nel film?
Io tendo a leggere molto i fatti di cronaca e a rimuoverli. Quello che mi sembra evidente è che gli eventi di cronaca vengono archiviati in fretta, il simbolico e la metafora, invece, restano. Se penso al dramma del nostro tempo e della modernità, credo che sia quello di non riuscire a far emergere il lato catartico delle tragedie e anche di come il dramma si avviluppi su se stesso: Favolacce, infatti, inizia come finisce e finisce come era iniziato, ha proprio questa criticità che sta nell’impossibilità di interrompere questa catena sottraendosi al mondo stesso. Penso che noi riviviamo i nostri stessi errori: un esempio emblematico è proprio quello politico che ho accennato prima, ovvero che siamo passati da Berlusconi a Salvini senza nemmeno rendercene conto, il che significa che non abbiamo imparato nulla dalla lezione del ventennio precedente. Questa mancanza di assimilazione del male e la mancanza di azione sono l’aspetto cruciale dei nostri tempi, così come l’astio per il fatto che noi non abbiamo il controllo totale delle nostre vite ma dobbiamo piegarci alle concezioni e alle volontà altrui.
Si vocifera di un vostro terzo film, di cosa tratterà?
Non abbiamo ancora deciso perché abbiamo in mente 2 film : uno è un western e l’altro è una storia d’amore, quindi due film molto diversi. Sicuramente parleranno sempre del tema che ci ossessiona, ovvero dei prodigi che dobbiamo inventarci per riuscire a sopravvivere in questo mondo, che è poi quello che abbiamo fatto in Favolacce.
Eveline Bentivegna