Il vertice Fiat-Governo sul piano Fabbrica Italia si è concluso con nulla di concreto nell’immediato
Nel 2010 Marchionne aveva presentato il piano Fabbrica Italia, promettendo un investimento di 20 miliardi nel giro di un quinquennio, ma aveva chiesto anche una svolta nella legislazione del lavoro rivedendo contratti e prerogative all’insegna della maggiore produttività e della maggiore flessibilità nelle assunzioni e nella fine dei rapporti di lavoro, praticamente sottoposti alla paralisi derivante dalle decisioni di giudici e tribunali che spaventano, per le lentezze e la farraginosità della materia, gl’investitori stranieri.
Da parte sua, il governo di allora propose una serie di misure che andavano nella direzione giusta ma che incontrarono un muro da parte dei sindacati e delle opposizioni a rivedere tutta la materia, per cui i passi in avanti nell’ambito della contrattazione, approvata da una parte dei sindacati ma non dalla Cgil, sono stati in seguito vanificati dai pronunciamenti dei tribunali che hanno sentenziato il reintegro del gruppo di lavoratori che avevano sabotato la produzione. Marchionne, allora, dichiarò che avrebbe pagato i lavoratori in questione ma non li avrebbe riassunti perché non voleva ritrovarsi in fabbrica chi aveva sabotato. Come si ricorderà, uscì anche da Confindustria giudicando inutile l’iscrizione al sindacato degli industriali troppo arrendevole verso la richiesta di una moderna legislazione. Confessiamo che queste cose succedono solo in Italia. Altrove, nei Paesi avanzati, vige la legge della meritocrazia: io ti assumo e ti pago come si deve, ma se non garantisci serietà, ho il potere di licenziarti. La serietà è richiesta sia al lavoratore che al datore di lavoro. Sulle questioni ambigue, decidono sindacati responsabili e padronato altrettanto responsabile, con possibilità di ricorso allo sciopero come estrema soluzione. Questi sono, all’incirca, gli estremi del quadro della situazione.
Qualche settimana fa, Marchionne annunciò ufficialmente che avrebbe ritirato il piano Fabbrica Italia, evidentemente per l’impossibilità di lavorare in Italia in condizioni di competitività. In poche parole, Marchionne disse che in Italia, diversamente che altrove, Fiat era in perdita e non conveniva lavorare in perdita con il rischio di compromettere la presenza Fiat nel mercato internazionale dell’auto.
Dopo questo annuncio – fatto magari sia per vedere le reazioni, sia per mettere di fronte alle sue responsabilità il governo – Monti ha risposto concordando con Fiat un vertice per affrontare l’argomento. Al centro della discussione un tema che riguarda la credibilità dell’Italia ma anche il ruolo e le scelte della Fiat. Si voglia o non si voglia, Fiat è un emblema dell’Italia dalla fine del 1800, da quando è nata, perderla significa arrendersi al peggio, significa confessare impotenza e fallimento di tutto un Paese. D’altra parte, non è nemmeno possibile che per un fatto d’immagine si possa protrarre soltanto di qualche anno la deriva di un grande azienda che all’estero fa profitti, mentre in Italia fa solo perdite. Il vertice è stato preceduto da una rassicurazione quantomeno tattica, sull’abbandono dell’Italia da parte di Fiat, per non far mettere in subbuglio i mercati e non creare difficoltà al governo in un momento in cui le stime dell’andamento economico parlano di un meno 2,4-6% del Pil rispetto all’anno precedente e di un meno 0,2% anche nel 2013. La crescita ci sarà, dicono gli esperti, ma riuscirà soltanto ad alleviare, non a superare, il saldo negativo. Ecco perché le attese del vertice erano tante, ma la realtà è che gl’impegni sono solo di orientamento, non c’è stato nulla di concreto. Si è discusso per oltre cinque ore, il che sta ad indicare che Fiat da una parte e il governo dall’altra hanno, ciascuno secondo la propria ottica, ribadito le proprie posizioni ed esigenze, ma senza garantire (e poter garantire) nulla di concreto per il futuro.
Fiat si rende conto che abbandonare l’Italia è un colpo per il Paese (25 mila dipendenti e 80 mila per l’indotto, un danno notevole), ma il governo non può più finanziare le aziende in crisi o bisognose di sostegno perché le leggi europee lo vietano. E’ possibile in Brasile, ma non lo è più in Italia e in Europa. E’ un dato di fatto. Il governo, in realtà, dovrebbe garantire una legislazione più flessibile, ma le difficoltà sono sempre quelle: è stata fatta una riforma, sicuramente non è il massimo, non è possibile rifarne un’altra a tambur battente. Ecco perché Fiat ha “apprezzato l’azione di governo volta, attraverso le riforme strutturali, al miglioramento della competitività, oltre che a un cambiamento di mentalità idoneo a favorire la crescita”, ma sembra dire che è troppo poco e che per questo ha confermato la strategia dell’azienda ad investire in Italia, ma precisando non ora, in queste condizioni, con queste leggi, solo forse “nel momento idoneo”. Il governo ne ha preso atto e siccome resterà in carica ancora 5-6 mesi, non può che rinviare la patata bollente al prossimo governo politico che nascerà nella primavera del 2013 e intanto mantiene Fiat in Italia istituendo un gruppo di lavoro presso il ministero dello Sviluppo per rafforzare le strategie di export, ciò che blocca l’abbandono del piano Fabbrica Italia e dei relativi investimenti.
Fiat ha posto drammaticamente il problema, il governo attuale a sua volta è consapevole dell’importanza della questione, ma sarà il governo della nuova legislatura a dover dimostrare di essere all’altezza di risolvere davvero questo grande nodo. La posta in gioco è davvero alta.