Dunque, il terzo polo, formato da Fli, Udc e Api (Fini, Casini e Rutelli), ha presentato una mozione formale di sfiducia nei confronti del governo. Sulla carta, la mozione potrebbe avere benissimo la maggioranza alla Camera, al Senato no.
Alla Camera i voti dovrebbero essere 317, uno in più della maggioranza assoluta. La somma è determinata dagli 85 deputati del “terzo polo”, più i 206 del Pd, più i 24 dell’Idv, più 2 deputati autonomisti. Berlusconi cadrebbe alla Camera, ma al Senato avrebbe la fiducia. Un bel pasticcio, cioè una bella prova di forza.
Fli, Udc e Api sperano che Berlusconi si dimetta e a questo punto gli accenti sono diversi. Fini vorrebbe recuperare la maggioranza di centrodestra con un premier diverso da Berlusconi: chiunque, ma non Berlusconi.
Casini e Rutelli non disdegnerebbero un nuovo incarico a Berlusconi con loro nella maggioranza. Queste due ipotesi hanno comunque un comune denominatore: far fuori Berlusconi ora o fra un anno per prenderne il posto ed ereditare la forza elettorale del centrodestra.
Il premier ha capito l’antifona da tempo e malgrado la mozione di sfiducia sia stata ufficialmente e formalmente presentata, vuole presentarsi il 14 alle Camere e mettere i deputati finiani di fronte alle loro responsabilità e al popolo che li ha votati in quanto Pdl. Vuole che tutti sappiano chi sono quelli che “hanno tradito”, che hanno sempre detto che sarebbero usciti dal Pdl ma che non avrebbero mai votato contro il premier che ha ricevuto dal popolo il mandato per governare.
A questo punto, se i numeri sono questi – e bisogna attendere il 14 per saperlo con precisione – le ipotesi sono due. O verrà dato l’incarico di formare un nuovo governo a un uomo del centrodestra, votato anche dal centrosinistra, o si va alle elezioni. Bisogna dire che quest’ultima sarebbe l’unica via di chiarezza. Quando una maggioranza si rompe e un’altra non c’è o non ha la forza per governare, in una situazione di crisi e di possibili speculazioni finanziarie, il ricorso al popolo è un atto di onestà politica e di democrazia.
Potrebbe esserci, evidentemente, un’alternativa, quello di riuscire a mettere insieme una maggioranza qualsivoglia, formata da Fli, Udc, Api, Pd, magari anche dall’Idv, ma cosa potrebbe fare un governo raffazzonato nel quale ci sono avversari dichiarati e irriducibili, come Casini e Di Pietro, come lo stesso Fini e buona parte del Pd che mal vedrebbe un’alleanza tra ex fascisti e ex comunisti? In effetti, questa soluzione appare impraticabile. La realtà è che Fini e Casini mirano a due obiettivi. Il primo è quello di tenere fuori gioco comunque il Pd e l’alleato Idv; il secondo è di contare sullo sbriciolamento del Pdl.
Una volta, insomma, sfiduciato il premier e una volta che il presidente Napolitano avrà affidato l’incarico, mettiamo a Pisanu, il trio punta su uno smottamento del Pdl sia alla Camera che soprattutto al Senato.
Ma a questo punto si pone un problema: il Pdl potrebbe anche essere eroso, ma rimarrebbe abbastanza forte da impedire, insieme alla Lega, la formazione di un governo di centrodestra con un altro premier. Perché una cosa è certa: se Berlusconi non potrà mai governare con un vantaggio di uno o due deputati o senatori, a maggior ragione non potrebbero farlo coloro che invocano un governo nuovo e solido, che non sarebbe né nuovo, né solido.
Basta guardare alla vicenda della riforma dell’Università. Questa avrebbe potuto essere votata entro il 14 anche al Senato, ma Fli si è opposta; Tabacci (Api) aveva proposto di prendere i soldi dal finanziamento pubblico ai partiti per darli ai ricercatori, ma ancora una volta Fli ha detto di no (e non solo Fli).
Non è dunque la Costituzione che in questa situazione difficile e delicata impone le elezioni, ma la situazione politica, talmente ingarbugliata da comportare il ricorso alla volontà popolare.
Chi vuole il cambiamento della legge elettorale prima di andare a votare – perché prima o poi bisognerà pur andarci – motivandolo con il timore che questa legge avvantaggerebbe Berlusconi, si nasconde dietro un dito, perché finora questa legge è stata applicata due volte, nel 2006 e nel 2008: la prima volta ha vinto il centrosinistra, la seconda volta il centrodestra, dunque ha vinto quella coalizione che in quel momento ha preso la metà più uno dei voti.
La situazione di paralisi che si è creata – ora è chiaro – viene dalla volontà di Fini di sostituire Berlusconi alla guida del centrodestra e del governo. Ha cominciato a farlo in sordina all’indomani della vittoria elettorale nel 2008, con un crescendo di distinguo, al punto da criticare ogni atto del governo, fino ai nostri giorni, quando la sua posizione, sostanzialmente, è: o si fa come dico io o niente. Tutto legittimo, evidentemente, a condizione che lo dica apertamente, mentre invece, con un’acrobazia degna di un trapezista, dà la colpa della paralisi agli altri.
Finora l’economia è stata guidata bene da Tremonti. Magari con rigore e con i tagli “orizzontali”, ma in un Paese come l’Italia dove i tagli alla spesa pubblica, cioè agli sprechi, vengono invocati da tutti ma nessuno li fa, ebbene, Tremonti l’ha fatto e si è meritato il plauso dei partners europei (e non solo) per aver tenuto al riparo l’Italia dai venti della speculazione finanziaria internazionale. Speculazione che non ci stupiremmo a veder riaffiorare dietro l’angolo, ad opera di chi prima si è accanito contro la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna come possibili candidati, con il rischio che anche l’Italia cada nel mirino.
Sarebbe davvero una iattura, ma se dovesse accadere ci sarebbero precisi responsabili. A sfasciare si fa presto, ma per rimettere insieme i cocci è molto più arduo.
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