Altrimenti determinato Galerio si era poi mosso a Nicomedia, con uno zelo accresciuto rispetto al resto dell’impero, trattandosi della città da cui l’editto era partito, e dove era intenzionato a dissipare l’ombra scomoda di Diocleziano. E senza riguardo aveva iniziato a rivestire di diverso significato espressioni, monumenti e persone che in qualche modo ne recavano traccia, o verso cui la condotta del predecessore era stata misurata. Allargando l’azione a tutta la città, sperava così di mascherare meglio l’accanimento esercitato sulla cerchia degli antichi funzionari, verso i quali pur aveva mostrato inizialmente un ipocrito riguardo, illudendoli di sentirsi al sicuro, prima di calare la mano soprattutto su coloro che scrupolosamente avevano servito Diocleziano.
Non fidandosi infatti della loro lealtà, e temendo che potessero far pervenire a Salona critiche sul suo conto, Galerio non trovò di meglio che allontanarli dal potere, in assenza di più gravi ragioni; o addirittura sopprimerli, se sfiorati dalla tara cristiana. Così, un po’ alla volta, aveva sostituito i membri del Consistorium, per collocarvi lusingatori a lui ben noti, scelti a ratificarne le delibere più che a consigliarlo saviamente; mentre con coloro che non ne facevano più parte, ma che vi avevano tenuto un ruolo di prestigio, esercitò una prevenzione intimidatoria verso qualsiasi velleità di intralcio o di critica.
Inoltre, scrutando nelle prossimità del palazzo, sparse moniti verso chiunque avrebbe potuto nuocergli, stipulando alleanze o gettando discredito sulla sua persona. E per farlo, non tenne conto nemmeno di coloro che Diocleziano, non considerandoli pericolosi, aveva trattato con riguardo. E lo fece senza considerare i sentimenti di Valeria o di Prisca, che ormai potevano solo tacere, relegate nella posizione di privilegio di cui si servono i despoti per esautorare chi mostrano di aver gratificato.
Per la sua rozzezza, Galerio non era certo uomo da valorizzare i fermenti culturali che pure non mancavano a Nicomedia, bastandogli il semplice discrimine tra cittadini comuni e cristiani, tra ligi e faziosi. Era quindi normale che coloro che già sotto Diocleziano avevano subito limitazioni di culto, prendessero qualche precauzione. Non tutti però erano in grado di fuggire. E poi, fuggire dove? Se non potevano raggiungere le più tranquille province di Costanzo, e non volevano rischiare la prigione e il martirio, non avevano troppe scelte. O smettevano di praticare, fingendo di rispettare gli editti e non facendo nulla per esporsi; oppure portavano avanti con convinzione le loro pratiche religiose, correndo il rischio di farsi incarcerare, o finire al supplizio.
Non era certo questo il caso di Lattanzio, al quale nessuno dei due modi era concesso agevolmente. Troppo noto per occultarsi con facilità, e per la sua natura pavida non certo portato a esporsi apertamente, il retore cartaginese, che non poche critiche aveva mosso in privato a Diocleziano, senza mai osarlo in pubblico, si rese presto conto che le cose sarebbero andate molto peggio con Galerio, sotto il cui governo il volto del dispotismo doveva toccare la sua più atroce forma. E nel suo libello contro i persecutori, scritto molti anni dopo, quando poteva godere dei privilegi al servizio di Costantino, pur condannandone l’azione, involontariamente tradirà qualche attenuante verso Diocleziano.
Le sue movenze di opportunismo e dissimulazione, tuttavia, già esibite nel lontano incontro con Porfirio, sullo scoglio di Lilibeo, avevano finito, dopo lungo tirocinio, per raggrumarsi in un vero e proprio tratto di personalità, in equilibrio tra l’ambiguità di fondo della sua natura e la doppiezza con cui si industriava a navigare, consapevolmente, sui marosi dei tempi. Sopra cui aveva imparato a destreggiarsi con eleganza, mettendo in evidenza le sue indubbie qualità, e sollecitando lodi se non giungevano spontaneamente, con disinvolta inclinazione a mutare opinione e partito.
Un’ambiguità da retore, si potrebbe dire, pronta ad assumere una nuova veste a seconda delle circostanze, non diversamente dai gloriosi sofisti, di cui Lattanzio assumeva pose e aire, al par di loro dubitando dei percorsi accidentati dell’intelletto che non aveva saputo sollevarsi all’inconcussa verità della fede. E graniticamente assiso sullo stollo del dogma, poteva di volta in volta esercitare i doni dell’eloquenza, dimostrando con validi argomenti la pertinenza di una tesi, e all’occorrenza, con appena qualche nuance, esattamente il contrario. A riprova di quanto le parole, maneggiate, riprese, impugnate, non siano garanzia di nulla; e servano sono da utensile di persuasione, pure nella magnificenza dell’arte, se dallo stesso vocabolario si può estrarre un libello velenoso come un trattato sublime; e se, appena flettendone il tono, dal lirismo della commozione scaturisce un livore d’ingiuria, e un’ansia di bellezza glissa in un astio pregno di malafede.
Limitato è in effetti il glossario degli umani, e inadatto alla sterminata gamma di sfumature ineffabili. Accade talora che qualcuno riesca a restituire con pronuncia persuasiva l’attimo fugace, o a fissare in un guizzo di biscrome, in una pennellata di luce, la grazia del giorno o il turbinio dell’uragano. Ma mentre l’immagine può contare sull’ausilio della geometria o dello spettrogramma, per farsi riproduzione attendibile, benché filtrata attraverso la retina dell’artista, la parola non ha fondamenta su cui innalzarsi sicura. E anche quando riporta fedelmente i detti, essi sono inquinati da tante e tali alterazioni, sfumature, passione, intensità e gioco, che a malapena può riprodurli con difetto. Così che mentre si può disegnare un albero con la quasi “obiettività” della camera, non si può invece che con approssimativa ricostruzione scendere nella grammatica delle emozioni.
Certo, ci si può con tenacia applicare a “ricercare” il tempo, titillare la psiche, ordinare i flussi mentali degli interlocutori: ma per farlo occorre spingersi sul terreno minato dell’arbitrarietà, e affidarsi a sintesi soggettive, se non addirittura disoneste, per decodificare il pensiero ricevuto, senza stravolgerlo magari nel suo contrario. Né qui si allude alla lecita frode della parola poetica, dai suoi cozzi di significato chiamata a evocare abissi da palombaro, no. Si tratta invece del codice d’uso per eccellenza, preso nella sua minimale funzione comunicativa. E che pure genera tanta cacofonia semantica tra i parlanti, dal momento che ognuno lo violenta non solo nelle acrobazie di estrose astrazioni, ma persino nel “semplice” referto di una banalità, pronunciata magari con noncuranza, intorno a cui si esibisce una babele pretestuosa, per ricavare anche dal non detto un assunto di verità.