Nelle sale il documentario di Gianfranco Rosi, vincitore del Festival di Berlino, che attraverso lo sguardo di Samuele racconta la crisi dei migranti a Lampedusa
Premiato con il Leone D’Oro a Venezia per il film per Sacro Gra, racconto della Roma del Grande Raccordo Anulare, Gianfranco Rosi è subito ripartito per una nuova avventura che lo ha portato a Lampedusa, approdo di migliaia di migranti, per raccontarci una delle maggiori tragedie dei nostri giorni.
Fedele al suo modo di raccontare solo dopo aver visto e vissuto, il regista si è trasferito sull’isola per oltre un anno, sperimentando come si vive in quel “pezzo di terra” che rappresenta ormai il simbolico confine d’Europa, il miraggio di migliaia e migliaia di migranti. Ed è da questo privilegiato punto di osservazione che ha raccontato in “Fuocoammare”, premiato con L’Orso D’Oro al Festival Internazionale del Cinema di Berlino (dal 1 settembre nelle sale svizzere), le storie di chi in quel “pezzo di terra” ci vive da sempre, con gli inevitabili cambiamenti e sconvolgimenti che i continui sbarchi hanno comportato nel corso del tempo, e quelle di chi, invece, in quel pezzo di terra approda per andare oltre in cerca di una nuova vita e della libertà perduta.
Cittadini e migranti insieme ma in due realtà talvolta completamente separate raccontate in un capolavoro di umanesimo e di regia documentaria.
Il regista ci racconta infatti di una città che si sdoppia: la Lampedusa scandita dalla quotidianità dei suoi abitanti e dal lavoro della pesca, raccontata attraverso la storia di Samuele, 12 anni, un ragazzino che ama giocare con la fionda e andare a caccia sulla sua isola che non è più una come tutte le altre, ma “l’isola”, una terra di passaggio, approdo e lasciapassare per migliaia di migranti che l’hanno destinata a diventare il simbolo di una tragedia moderna, l’altra Lampedusa quindi, quella dei migranti, che il regista racconta attraverso gli occhi dei passeggeri ammassati su quelle navi cariche di storie e speranze. Una su tutte quella di Kabred e del figlio che portava in grembo.
Una Lampedusa che diventa quella dei morti, chiusi in sacchi neri e lasciati lì in attesa, in una quasi normalità che ormai lascia sgomenti solo chi guarda da fuori. L’altra Lampedusa, quella scenario di storie tragiche raccontate nello struggente canto rap dei migranti nel centro di accoglienza.
A far da tramite tra queste due realtà che si incontrano il medico Pietro Bartolo del poliambulatorio di Lampedusa che da anni compie la prima visita ad ogni migrante sbarcato sull’isola, a partire dal primo sbarco, nel 1991; è lui il custode della parte più cruda di questa realtà: storie, volti, drammi di centinaia di persone che non ce l’hanno fatta.
La sua accorata testimonianza su cosa significa accogliere e curare i migranti e su come la percezione della realtà possa cambiare sbarco dopo sbarco, racchiude forse in sè il senso dell’intero racconto e dovrebbe far riflettere nei confronti di un problema che ormai riguarda davvero tutti e che non può più essere ignorato.