L’Italia, come si sa, sta partecipando da anni a delle missioni di pace all’estero (attualmente in Afghanistan, in Libano e nei Balcani, prima in Iraq), sotto l’egida dell’Onu, che legittima la missione stessa sia in quanto pacifica, sia in quanto voluta dalla comunità internazionale. Queste missioni, evidentemente comportano dei rischi, che vanno accettati come rischi del mestiere.
La morte del capitano italiano Giuseppe La Rosa è dunque, come tutti gli altri, un lutto e un dolore per la Nazione, e bene hanno fatto i rappresentanti dei partiti e delle istituzioni a rendere omaggio al suo sacrificio e a quello degli altri 52 italiani caduti in Afghanistan. Enrico Letta, presidente del Consiglio, ha dichiarato che “quello che l’Occidente ha fatto laggiù ha risparmiato cose peggiori”; Piero Grasso, presidente del Senato, ha detto: “Ci sono degli impegni da rispettare. Questo è prioritario rispetto ad andare via”. Istituzioni e partiti, almeno quelli della maggioranza, ma anche alcuni dell’opposizione, giustamente hanno sottolineato da una parte il carattere di pace della missione, dall’altra il rispetto degli impegni presi.
Ciò detto, però, una riflessione s’impone sull’opportunità che in futuro l’Italia accetti di far parte di altre missioni che non solo comportano enormi spese finanziarie che oggi non ci possiamo più permettere, ma che fanno dubitare che i sacrifici servano a qualcosa. Finora solo le missioni nei Balcani e in Libano sono servite agli scopi per cui sono nate. Quella in Iraq, analizzando i pro e i contro, si è rivelata inutile; quella in Afghanistan ancora peggio.
C’era una volta l’Iraq di Saddam Hussein, dittatore crudele. Abbattuto lui, l’Iraq si è rivelato un campo minato, con morti, feriti, distruzioni, devastazioni, al punto che ci vorranno molti anni prima che ci sia una normalizzazione. E’ vero che ci sono stati due tentativi di elezioni democratiche, ma è vero anche che poi il potere dalle mani di un sunnita è passato nelle mani di uno sciita, con la sostituzione di un potere con un altro, magari con un uomo migliore rispetto a quello di prima, ma con un tasso di insicurezza ancora maggiore, a causa di attentati e vendette che insanguinano tutto il Paese.
In Afghanistan gli aiuti dati, le infrastrutture create, la solidarietà dispiegata saranno destinati ad essere cancellati dopo la partenza dei contingenti internazionali. Sarà stata una guerra sanguinosa e annosa che non sarà servita a nulla perché già si sa che appena dopo il ritiro dei contingenti internazionali – tra l’altro annunciati addirittura tre anni fa – i talebani si impadroniranno di nuovo del potere e lo eserciteranno con la stessa violenza di quando, anni fa, lo detenevano. Già oggi che ci sono 140 mila soldati, blindati, carri armati, aerei e ogni sorta di armi, in Afghanistan scorrono fiumi di sangue, figuriamoci cosa succederà quando rimarranno solo le truppe di addestramento: un macello. Ne sarà valsa la pena? Più no che sì: gli svantaggi superano di gran lunga i vantaggi. Insomma, non si possono rischiare preziose vite umane e ingenti mezzi finanziari se i risultati sono nulli o quasi nulli o solo un fuoco di paglia, sia per chi partecipa come forza militare di pace all’insegna dell’Onu, sia per le popolazioni locali, specie quando vedono nei liberatori dei nemici.
Al giorno d’oggi è maturata la consapevolezza che la democrazia non si esporta – specie in quei Paesi con una fortissima tradizione a vocazione autoritaria – se non si è pronti a battersi per essa, a conquistarla e a difenderla con i mezzi che offre la democrazia, cioè il voto libero, il rispetto degli altri, la conquista di sempre nuovi spazi di civiltà. Le scorciatoie, di solito, non servono a nulla, a volte, anzi, servono anche ad annullare processi più lunghi ma più fecondi di risultati duraturi.