Due buone notizie dalla maggioranza e per la maggioranza. La prima è che a fine anno imprese e famiglie avranno l’Irpef più alleggerita, il che, anche se di poco, si tradurrà in una busta paga più pesante. La seconda è che per la prima volta da quindici mesi a questa parte il Prodotto interno lordo (Pil) è tornato a salire (+0,6%). Ciò significa che la recessione è finita e che si sta uscendo dalla crisi economica. Potrebbe esserci un’altra buona notizia, direttamente legata a quella precedente, è cioè che l’Italia è uno dei primi Paesi in Europa a tirare un sospiro di sollievo.
Dopo di che, però, le buone notizie per il governo si fermano qui. Nella maggioranza c’è un clima di lacerazione e ancora una volta l’oggetto è la riforma della giustizia, una riforma complessa e delicata, il cui primo tassello doveva essere il cosiddetto processo breve, come impone anche l’Europa. Nell’incontro tra Berlusconi e Fini prima e in quello tra il premier e Casini dopo erano emersi alcuni paletti.
Fini sarebbe stato disponibile al processo breve, sarebbe stato disponibile a trovare una soluzione all’assedio giudiziario di Berlusconi da parte della magistratura, ma la soluzione non solo non doveva penalizzare i diritti degli altri cittadini, ma doveva essere accompagnata da risorse adeguate per la magistratura affinché la macchina giudiziaria potesse rispondere all’accelerazione dei processi.
Con Casini il punto di compromesso era che il leader dell’Udc non avrebbe aderito all’alleanza proposta dal premier per andare insieme alle regionali (si era tenuto le mani libere di allearsi ora col Pdl, ora col Pd, ora di andare da solo), ma era d’accordo a votare una soluzione costituzionalmente compatibile e chiara che concedesse al premier l’immunità per tutta la durata del suo mandato.
Il disegno di legge sul processo breve, elaborato in poco tempo dagli esperti del presidente del Consiglio, alla fine è stato presentato al Senato ma ha scontentato tutti, anche molti nella stessa maggioranza. Da una parte c’è la giusta esigenza di limitare la durata dei processi, e questo punto è chiaro nel ddl del governo.
Il testo concede 2 anni per ogni grado di giudizio e un ulteriore anno se la Cassazione rinvia il processo, ma la via scelta per l’immunità al premier si è rivelata contraddittoria perché se da una parte esclude dal beneficio della legge reati come terrorismo, mafia, estorsione, furti, rapine eccetera, dall’altra esclude anche reati minori come quello della clandestinità. Non solo. Per usufruire del beneficio della legge già in prima applicazione, il testo prevede che si possa ricorrervi solo se si è in attesa del primo grado di giudizio e se si è incensurati.
Ora, quest’ultimo principio può anche essere ragionevole, ma se in un processo multiplo – con più imputati – uno è incensurato e un altro o altri no, allora si crea una disparità di trattamento. Insomma, il ddl ha suscitato un vespaio di polemiche non solo da parte delle opposizioni, Casini compreso, ma anche da parte di alcuni settori della maggioranza o di singole personalità che la sostengono.
Secondo le ultime notizie, sembra che nella maggioranza stiano maturando due ipotesi complementari: il ddl sul processo breve andrà avanti, riveduto e pulito dalle contraddizioni e dalle disparità di trattamento e contemporaneamente, con legge costituzionale, o si ripresenterà il lodo Alfano – che sospende (non annulla) i processi per tutta la durata del mandato – o, sempre per via costituzionale, si introdurrà di nuovo quella norma soppressa nel 1993 e che riguarda l’immunità parlamentare per tutti i deputati e senatori. Una via, questa, più lunga (i passaggi dalla Camera al Senato e viceversa sono duplici e a distanza di tre mesi l’uno dall’altro), ma più limpida.
Lasciamo da parte le grane giudiziarie che hanno investito il Sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino – accusato dai pm di Napoli di essere stato “eletto grazie ai voti dei casalesi”, accusa smentita dall’interessato – e le grane giudiziarie che investono parecchi autorevoli personaggi di destra e di sinistra, da Nichi Vendola a Antonio Bassolino passando per Firenze, Bari, Napoli e Roma.
Nel centrosinistra l’abbandono di Rutelli – che ha fondato un movimento denominato Alleanza per l’Italia – dapprima era stato derubricato a caso isolato, poi, invece, è diventato oggetto di preoccupazione e di timori, perché dopo Rutelli sono usciti dal Pd altri parlamentari, da Vernetti a Lanzillotta, che, aggiunti a Pino Pisicchio (Idv), a Bruno Tabacci (Udc), Giorgio La Malfa e Paolo Guzzanti (Pdl), formano un gruppetto agguerrito e destinato a rafforzarsi con nuovi arrivi.
Questo nuovo partito, che guarda al centro e che si definisce riformista, liberale, laico e moderato, comincia a preoccupare il Pd di Bersani che teme di essere pesantemente sfrondato elettoralmente al punto che l’emorragia di voti non sarebbe compensata dall’entrata di nuovi elettori provenienti dalla sinistra.
Ultimamente si sta ventilando l’ipotesi che Bersani, per arginare il pericolo di essere ridotto al vecchio Ds, voglia proporre a Casini di fare il Prodi della vecchia Unione.
Se quest’ipotesi è fondata, sarebbe un ritorno al fallimento, se è inventata, siccome non lo è la formazione di Rutelli, per il centrosinistra è comunque un grosso problema.
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