Ancora prostrato nella vergogna, Tiridate, il gigante che aveva riportato tante vittorie (era stato lui a schermare Licinio durante l’insurrezione seguita alla morte di Probo; era stato lui e salvare Galerio nella rovinosa incursione dei persiani, durante la quale peraltro, gravemente ferito, si era salvato gettandosi con tutta l’armatura nella acque dell’Eufrate), più che dolorare per lo smacco di Hripsime, ora avvertiva solo di esserne ardentemente innamorato; e come parziale giustificazione alla resa, a base della sua insania poneva l’oscuro influsso di un maleficio.
“Vedi,” diceva a se stesso, “vedi come la follia cristiana inganna i suoi adepti: e allontanandoli dal culto degli dèi, li priva delle gioie della vita e gli fa amare la morte! Non altrimenti è successo a Hripsime, impareggiabile tra le donne, che orgogliosamente mi respinge, me, re d’Armenia, mentre io, finché vivrò, non riuscirò a cancellarla dalla memoria. E dire che conosco le città greche e romane, le contrada dei parti e dell’Assiria, le alture di Dadjik e d’Adherbadagan. Molti ne ho percorsi in tempo di pace, e molti ne ho esplorati in guerra: ma mai, da nessuna parte, in nessun luogo, ho scorto una simile bellezza. E ora che è in mio potere, devo rassegnarmi a perderla per sempre? Devono forse i sortilegi di quella setta averla vinta sul mio imperio? No, per Diana: a costo della vita stessa, non intendo rinunciare a quell’inestimabile bene!”
E così il giorno dopo, ripreso il dominio di sé, ordinò che ancora una volta la giovane gli fosse ricondotta: determinato a controllare con la corazza del potere il languido sgomento di incontrarla e il bruciore dell’onta. Più niente e nessuno, si era detto, avrebbe potuto impedirgli di farla sua: ancora ignorando di cozzare contro un impedimento ben più persuasivo della pur coriacea determinazione di Hripsime, e che rudemente apprese dal rapporto dei carcerieri.
“Quella che cerchi è ormai morta, o re! E con lei, tutte le spregiatrici dei nostri dèi, che tanto hanno mancato di rispetto alla tua persona, hanno subito la pena che avevi decretato per loro! L’unica che ancora sopravvive è colei che aveva dato il cattivo consiglio!”
Indescrivibile fu il dolore del re nell’apprendere la ferale notizia! Non potendo sopportare di essere stato lui stesso cagione di quella morte, e di essersi procacciato con la sua improvvida cecità un male a cui non avrebbe più potuto rimediare, per allontanare da sé quella terribile colpa ancora una volta cercò un irrazionale sfogo al dolore, scaricandolo su Gaiana: alla quale ordinò che fosse strappata la lingua che aveva pronunciato quel suggerimento di morte. E i boia, perfidamente decifrandone il volere, condussero la donna oltre il ponte Medzamor, nella palude dove era consuetudine eseguire i prigionieri. Là conficcarono nel terreno quattro pali; e mentre Gaiana ringraziava il Signore, le stracciarono le vesti; la legarono ai picchetti; e fattale delle incisioni sotto la pelle, vi introdussero tubi, soffiando dentro i quali la scorticarono dai piedi al seno. Quindi le trafissero il collo; le strapparono la lingua; colmarono di pietre lo sventramento delle budella; e finalmente, quando ne restava solo un rottame sfigurato, si decisero a mozzarle la testa. E così, il giorno dopo del martirio di Hripsime e delle sue compagne, avvenuto il ventiseiesimo giorno di Hori (4 novembre), anche Gaiana ricevette la corona della gloria.
Ma intanto, narra Agatangelo, Tiridate era piombato in uno scoramento profondo, che gli faceva versare continue lacrime d’amore e impotenza. E il decorso di questa inconsolabile malinconia si sviluppò in un morbo inspiegabile, che lo spingeva, tramutato in cinghiale, a vagare nottetempo per balze e dirupi, senza che nessun farmaco riuscisse a curarlo. La medicina, poco incline alle svenevolezze dell’amore perduto, senza troppo indugiare sul miscuglio di lutto e rimorso che aveva sconvolto la mente del sovrano, parlerebbe di licantropia, e prescriverebbe le cure del caso, sacrificando la favola e l’esemplarità della pena. Ma Agatangelo, esaltato e infervorato, ci informa invece che alla sorella del re, Khosrovitoukhd, apparve in sogno un angelo, a rivelarle i poteri miracolosi del predicatore imprigionato, e a dirle che il re sarebbe guarito solo per mano di Gregorio. Inizialmente, per non gravarsi, oltre che dello strazio per la perdita anche del cruccio dell’ammenda, Tiridate respinse la proposta. Ma alla fine, arresosi al peggio e ormai disposto a ogni terapia, fosse pure tra scetticismo e remore, fece liberare Gregorio: che, dopo tredici anni di reclusione nella fossa “Khor Virap”, fu nuovamente condotto alla sua presenza.
In quella insperata evenienza, Gregorio si guardò bene dal lagnarsi o insuperbire. Troppa meditazione aveva condotto sulla vanità dell’orgoglio, per gustare la sterile rivincita della piccineria. Piuttosto, con accenti di conforto e umiltà, di dolcezza e sollecitudine, riuscì a placare l’angoscia del sovrano; e insieme alla serenità dell’anima seppe istillargli i rudimenti della misericordia. E Tiridate, persuaso dalla moderazione dell’antico amico, poco a poco si convinse che quelle di Gregorio erano parole di verità e di pace. E una volta riacquistate le sembianze umane, per espiare la morte dell’amata che non aveva mai potuto allontanare dalla mente, con la sua immane forza trasportò sul monte Ararat il numero necessario di massi per costruire una chiesa sul luogo del martirio.
Intanto Gregorio, accompagnato da una foltissima schiera di cavalieri, a Cesarea di Cappadocia, dalle mani del vescovo Leonzio riceveva la consacrazione a Illuminatore del popolo armeno. Dopodiché, sulle sponde dell’Eufrate battezzò nobili e soldati che gli erano andati incontro, tra cui lo stesso Tiridate. Edificò quindi la cattedrale di Etchmiadzine; formò un clero locale; evangelizzò la Georgia; mosse vittoriosamente contro Achtichat, centro del paganesimo armeno: e portò avanti un’indefessa opera di catechizzazione. Aiutato in ciò da Tiridate: che personalmente percorse instancabilmente il paese; e sui luoghi di culto abbattuti fece edificare nuovi templi cristiani. Assecondando, in questa svolta di conversione, anche il disegno squisitamente politico di ritagliarsi una religione nazionale, distinta dal paganesimo romano e dallo zoroastrismo persiano.
Infine, dopo aver organizzato la Chiesa armena, consacrando e inviando dappertutto vescovi e sacerdoti, Gregorio chiamò i suoi stessi figli a sostituirlo nella guida della diocesi, allorché scelse di ritirarsi in una grotta sul monte Sepouh. Dove la morte lo sopraggiungerà nel 328, quattro anni dopo aver visitato il ritrovato amico Tiridate, vittima di una rivolta di nobili che non gli perdoneranno l’abbandono degli dèi locali. Né poteva sapere che quel luogo, in cui aveva trascorso i tredici anni più orrendi della sua vita, sarebbe diventato, col tempo, meta di un ininterrotto pellegrinaggio devozionale; e che il suo nome, grazie alla bella e ritrosa Hripsime, sarebbe stato associato nei secoli a quello dell’amico per sempre ritrovato.