Repliche all’articolo di Antonio Ravi Monica in cui si mettono in discussione le certificazioni CELI E PLIDA
Antonio Ravi Monica, la scorsa settimana, ha affrontato un argomento di cui si parla, poco e male, solo nei collegi dei docenti: la certificazione e i corsi di lingua e cultura. Gli insegnanti di livello medio dei corsi devono decidere se proporre agli alunni di II Sekundar di sostenere o meno la preparazione per l’esame di certificazione.
Questa decisione non è così automatica e semplice perché solleva tutti gli interrogativi che Ravi Monica ha sintetizzato nel suo articolo, domande alle quali gli addetti ai lavori (Ministero, presidi, sindacati,università, docenti stessi) a tutt’oggi non sanno, non possono e forse non vogliono dare una risposta. Quando nel 2005 è stata introdotta nei corsi di lingua e cultura la possibilità per i ragazzi di III media di sostenere la certificazione, io ho aderito con entusiasmo all’iniziativa. All’epoca, da inguaribile ottimista, ho pensato che questa novità fosse l’inizio di un cambiamento (didattico, legislativo e organizzativo) che permettesse di far emergere tutta la qualità e il valore dell’insegnamento dei corsi. Ero consapevole che la didattica formativa dei corsi lingua e cultura poteva comprendere, ma non esaurirsi nella didattica istruttiva delle certificazioni. All’epoca pensavo che le certificazioni avrebbero potuto dare un contributo qualificante, ma limitato, proprio perché approfondivano solo l’aspetto istruttivo dell’insegnamento della lingua, vale a dire la somministrazione a gruppi omogenei di studenti di un pacchetto formativo che tende all’acquisizione di comportamenti osservabili e duraturi. In realtà l’obiettivo principale dei corsi è un altro ed è ben definito dal Rahmenlehrplan della Bildungsdirektion di Zurigo: prima ancora di affrontare delle prove standard di lingua, i ragazzi dovrebbero riscoprire e ritrovare in classe quel piccolo frammento o quella grande parte di italianità che è dentro di loro e devono innamorarsene. E questo innamoramento può avvenire in tanti modi: attraverso, il gioco, attraverso la canzone, attraverso il teatro, attraverso il cinema, attraverso la lettura, attraverso la riflessione sulle differenze culturali.
Al di là delle mie aspettative, quello che si è verificato in questi anni è che sembra che le certificazioni siano diventate lo scopo più importante dei corsi, mentre il vero obiettivo è sopratutto sociale. Lo studio e il contatto qualificante con la propria lingua madre o con la propria lingua d’origine aiutano i ragazzi nella ricerca della loro sicurezza. Senza molta fatica, trascorrendo il tempo con i propri compagni, gli alunni dei corsi si ritrovano con la conoscenza di una lingua e di un cultura in più. Questa conoscenza offre sicuramente un vantaggio competitivo nel mondo del lavoro, così come si sta configurando negli ultimi tempi. È sufficiente gettare uno sguardo sugli annunci di ricerca del personale: viene richiesta non solo una conoscenza linguistica molto ampia, ma anche flessibilità, intuizione, apertura mentale, maturità nei rapporti interpersonali. Chi è consapevole delle diverse culture che agiscono dentro di sé, ha anche maggiori possibilità di offrire questo tipo di profilo e caratteristiche. I corsi sviluppano proprio tali competenze, di valore superiore a quelle certificate dal PLIDA o dal CELI.
Il problema è che non sono mai stati definiti quali spazi e quali tempi le certificazioni possono avere nell’ambito dei corsi di lingua e cultura. Le certificazioni sono state proposte ai ragazzi con una modalità di sovrapposizione o affiancamento tout court e non con una modalità frutto di una discussione approfondita da parte degli addetti ai lavori: (università, istituzioni scolastiche, presidi, insegnanti, sindacati e politici). Questo mancato dibattito ha fatto esplodere una serie di contraddizioni che non sono ancora risolte e con le quali io personalmente come insegnante mi confronto ogni giorno. Non tutti i ragazzi riescono a superare l’esame e ciò può creare un senso di frustrazione e indurre a pensare che gli anni investiti nella scuola italiana non siano serviti a nulla. A volte mi trovo a consigliare a dei ragazzi dei livelli più bassi rispetto alla loro conoscenza intuitiva della lingua e alla loro appartenenza alla cultura italiana. D’altro canto sento profondamente la funzione pubblica del mio lavoro e non posso non offrire a tutti i ragazzi la possibilità di affrontare la prova e mettersi in gioco. Non saprei come rispondere alla domanda “Perché io no?” Cosa dire: “perché sei più bravo”, “perché sei meno bravo”, “perché questi esami non rendono onore alla tua identità italiana”. Tuttavia è vero che alcuni alunni superano con buoni voti livelli alti e ciò è sorprendente, se si pensa che nella scuola Sekundar, scuola dell’obbligo pubblica (ambito in cui operiamo), non sono previsti esami di certificazione per le lingue. Inoltre alcuni ragazzi che parlano pochissimo l’italiano a casa riescono con piena soddisfazione nel la prova soglia A2. Tali fatti sono rivelatori della qualità, dell’entusiasmo e dell’ottimo lavoro che si svolge nei corsi, nonostante l’assembramento di livelli di competenza più disparati, nonostante gli orari faticosi, nonostante la frequenza facoltativa. Ma questi elementi positivi non sono una risposta alle domande e alle difficoltà degli insegnanti e alla delusione di coloro che non ce la fanno.
Inoltre le certificazioni pongono anche un altro problema di tipo sindacale, mai affrontato e che in qualche modo andrebbe risolto: insegnanti pagati coi soldi pubblici, MAE e CASLI, lavorano gratis per enti privati. In questi anni, pur avvertendo tali contraddizioni, mi sono “arrangiata”, mi sono detta che già solo il fatto di invogliare i ragazzi a mettersi in gioco per raggiungere un obiettivo aveva un valore formativo e ho trovato nel mio piccolo di volta in volta delle soluzioni di buon senso. Ma anche il buon senso ormai, non è più sufficiente e avverto un forte disagio. Ho sempre avuto fiducia che gli organi competenti e i politici (magari gli stessi che avevano spinto per introdurre le certificazioni nei corsi) si sarebbero resi conto da soli delle contraddizioni e avrebbero individuato e applicato delle strategie a favore dei ragazzi.
Alcune proposte delle cose che si potrebbero realizzare: prevedere e implementare una prova specifica per i corsi a conclusione del ciclo di studi, definire i diversi livelli per questa prova; strutturare la prova finale in modo tale che valorizzi l’aspetto formativo della didattica dei corsi. (Ad esempio, ma è solo un esempio, avevo pensato ad una gara di lettura su una bibliografia selezionata). Organizzare delle commissioni interne composte dagli insegnanti. Tutti i ragazzi potrebbero quindi avere una valutazione e un attestato che rendano visibile per il mondo esterno l’impegno profuso durante gli anni di frequenza e il livello raggiunto. Infine si potrebbe organizzare l’orario degli insegnanti di ruolo di livello medio tenendo conto della necessità di tempo aggiuntivo per partecipare alle commissioni e per preparare i ragazzi sia alla certificazione, sia all’esame consolare. Invece nulla!
Come al solito l’inerzia! Ancora una volta la scuola all’estero è uno spaccato delle ragioni della crisi che sta affrontando il Paese. Negli anni 50 e negli anni 70 sono state fatte delle grandi leggi proiettate al futuro e fondate su valori che sono ancora oggi in grado di interpretare i bisogni di una società in rapida evoluzione. Ma queste leggi necessitano di una revisione, di una riflessione su quello che è ancora attuale e su quello che va cambiato, ma da oltre trent’anni nessuno fa nulla. E nelle pieghe di questo sistema legislativo, che ha assoluto bisogno di riforme, si sono annidati, privilegi sindacali, grandi sprechi, fortissimi interessi privati, e molti, ma impotenti, slanci di generosità. Qualcuno potrebbe obiettare che con tutti i problemi che ha l’Italia, la scuola all’estero è l’ultima delle priorità, ma da qualche parte bisogna pure iniziare e la lontananza fornisce, a volte, maggiore lucidità.
Paola Frezza
“Cerchiamo un po’ di vederci chiaro”
Replica di Cesare Spoletini all’articolo di Antonio Ravi Monica in cui si mettono in discussione le certificazioni CELI e PLIDA
Leggo con notevole disappunto l’articolo a firma di Antonio Ravi Monica, pubblicato sulla Pagina, la settimana scorsa: un sorprendente coacervo di fantasiose e personalissime considerazioni circa l’utilità dei «Diplomi» dei corsi d’italiano, come annunciato nel titolo. L’articolo incriminato impasta senza criterio : corsi, insegnanti, diplomi, bilinguismo, pagelle, medaglie, regolamenti e libere interpretazioni, a mo’ di malta bastarda, in betoniera. Nebbia fitta sul cantiere: cerchiamo un po’ di vederci chiaro!
Dato l’argomento di pubblico interesse riguardante le giovani famiglie con prole in età scolastica, reputo assolutamente necessario, su queste medesime colonne, spiegare ai lettori, con la dovuta precisione, che cosa siano le certificazioni di competenza linguistica italiane [PLIDA, CELI etc.]. I suddetti diplomi di certificazione linguistica, secondo i parametri stabiliti dal Consiglio d’Europa, esistono per tutte le lingue europee, indipendentemente dalle scuole di qualsiasi tipo e grado, università comprese.
Tali diplomi certificano il livello di competenza linguistica (italiana, nel nostro caso) raggiunto dagli esaminati. Punto. Ovviamente, al termine del cursus pluriennale seguíto dai nostri ragazzi, in fatto di lingua e cultura italiane, la certificazione è un coronamento opzionale molto auspicabile e, il certificato cartaceo, è un documento ufficiale che attesta del livello di competenza linguistica raggiunto e superato dal titolare, indipendentemente dalla scuola che lo ha preparato. Si tratta, quindi, di qualcosa in aggiunta al diplomino cantonale di «quarta media», assolutamente indipendente dall’istituzione scolastica.
Ciò significa che perfino genitori e nonni, volendo, potrebbero iscriversi agli esami di certificazione, superarli e diplomarsi : in B1, B2, C1 eccetera. Poco importa dove e quando siano andati a scuola, o se non ci siano neppur andati, purché abbiano superato detti esami. Basta conoscere una data lingua secondo i parametri stabiliti dal Consiglio d’Europa.
Per esempi : gli allievi di spagnolo e di greco (moderno) hanno le loro rispettive certificazioni. La scuola cantonale ed i corsi di lingua e cultura accessorii « preparano » gli allievi all’esame, collaborando, ma restano indipendenti. Infatti : le commissioni esaminatrici provengono dall’esterno di qualsiasi scuola. Chiaro?
Possedere fra i propri papiri, oltre alla carta d’identità, al passaporto, al carnet delle vaccinazioni, ai diplomi scolastici o accademici e ad ogni altro certificato di abilitazione personale ottenuto (per esempi : la patente di guida o, perfino un eventuale brevetto da sommozzatore o di pilota aereo, a vela o a motore…), dicevo, esibire un certificato di competenza al livello B1, in italiano, o in tedesco, o in francese, inglese, greco moderno o spagnolo, significa oggi, di fronte a chiunque, in tutto il mondo, qualcosa di stabilito, preciso e riconosciuto.
Il bi- o trilinguismo non ha nulla da spartire con questa faccenda. Uno dei nostri piú brillanti allievi, in quel di Neuchâtel, è di madrelingua araba (sic!), punta ad un livello d’italiano B2 e ci riuscirà a chius’occhi ; con tutta la nostra ammirazione e soddisfazione. Buon per lui! A che cosa serve? Cela va sans dire… non c’è bisogno di spiegare oltre! Ciò detto, è ottima cosa prepararsi per ottenere tale certificazione (differenziata, ad personam, L1 per alcuni, L2 per l’80% degli altri) alla fine della scuola secondaria, o «scuola media» che dir si voglia.
La maggior parte degli insegnanti, da una quindicina di anni in qua, ha accolto con crescente entusiasmo l’iniziativa di offrire questo servizio accessorio, altamente motivante. Da allora, la certificazione indipendente ha conferito ai diplomati un riconoscimento europeo, internazionale, senza badare da quale scuola essi provengano. E basti vedere con qual entusiasmo genitori & famiglie (per tacere delle autorità comunali invitate!) convengano numerosi alle consegne protocollari di questi diplomi agli allievi, laddove si è avuta idea di organizzarle, per convincersi : una «rimpatriata» di sana e serena italianità corale e viscerale (ne abbiamo proprio bisogno, di questi tempi…) tanto per riferirci ad emozioni fisiche.
Certo, purtroppo, fra certi docenti se ne trova sempre qualcuno, maldisposto, a strusciar le ciabatte con palese o malcelata «svoglia» : perché far di piú se non c’è obbligo? Insegnare nobilita, ma… stanca ; e maggiormente stanca, a parità di stipendio. Cela va sans dire! Per fortuna nostra, i docenti esercitano la loro professione con grande passione : insegnare è una missione, innanzitutto. Tutta la gratitudine e il nostro cordiale saluto, a chi s’impegna!
Cesare Spoletini
Libero cittadino
La Chaux-de-Fonds
Caro direttore,
mi chiedi di rispondere a questa replica, ma cosa rispondere?
Se il simpatico (libero) cittadino scrive che PLIDA e CELI certificano il livello di competenza linguistica, dimenticando di aggiungere di chi non è madrelingua (una svista, spero), cosa vuoi che gli risponda?
Che io parlo di ragazzi di madrelingua italiana e lui di ragazzi di madrelingua araba? Che anch’io consiglio la certificazione ai miei studenti di madrelingua tedesca, ma non ai madrelingua italiani? Che la certificazione di lingua spagnola va bene, ma non per gli spagnoli? Che i ragazzi bilingui nati in Svizzera vincono concorsi letterari in Italia, superando in scrittura i residenti? E cosa dovremmo dare loro, un D33?…E ai residenti, un B1?…Dimenticavo, chi è nato in Italia è esente dalla tassa sulla lingua. Queste cose Spoletini le sa già. O dovrebbe saperle.
Ma soprattutto: cosa vuoi che risponda a un responsabile PLIDA della Dante Alighieri di Neuchâtel che si firma e vuole farsi passare per libero cittadino?
Con affetto, Antonio Ravi Monica
1 commento
Vi ringrazio per il dibattito cosí sentito e partecipato che ci ricorda di non abbassare mai la guardia quandp si parla di scuola e del futuro dei figli.