La fine del 2011 segnerà il ritiro di tutti i soldati americani dall’Iraq. Resterà una forza civile di 14 mila uomini tra diplomatici, contractor, funzionari della Cia e del Dipartimento di Stato, cioè quella che è stata chiamata una “presenza invisibile”. La decisione di fissare il ritiro al 31 dicembre del 2011 fu presa nel 2007 da George Bush, da colui, cioè, che scatenò la guerra nel marzo del 2003 contro Saddam Hussein e che due mesi dopo, sul ponte di una portaerei, esclamò “Mission accomplished”. In realtà, quel giorno l’Iraq fu piegato militarmente, la statua di Saddam fu abbattuta, ma da allora cominciò la guerra civile, con attentati, bombe, incendi tra fazioni e etnie. Il bilancio della guerra è stato di 4.487 soldati americani morti e 30 mila feriti, 150 mila iracheni (stima) uccisi e centinaia di migliaia feriti, 800 miliardi di dollari. Queste le nude, tragiche cifre. Fra una decina di anni, gli storici potranno collocare decisioni ed eventi in un giudizio distaccato dalla congerie degli elementi della cronaca, ma già si può abbozzare un giudizio. In sintesi tre furono le cause che scatenarono la guerra: l’attacco terroristico alle torri gemelle nel 2001 e l’esistenza di un arsenale di armi di distruzione di masse detenuto da Saddam. Questi due elementi – di cui il secondo si rivelò falso, forse inventato ad arte dagli gnomi della guerra in America – si saldarono ad un fatto storico che mostrò tutta la crudeltà di Saddam Hussein. In occasione delle conclusioni della guerra del Golfo, nel 1991 (invasione del Qweit da parte di Saddam), Bush padre si attenne scrupolosamente alle indicazioni dell’Onu di non entrare in Iraq. La fine della guerra fu firmata, infatti, ai confini, con la garanzia da parte del dittatore che i prigionieri e gli avversari sarebbero stati trattati umanamente. Invece, mentre gli elicotteri americani si alzarono in volo, i negoziatori ebbero modo di assistere dall’alto ai massacri di migliaia di persone senza poter fare nulla. Questo per dire della crudeltà del dittatore e dei suoi gerarchi. Ci fu un quarto motivo che diede origine alla guerra: la convinzione di poter esportare la democrazia. Ebbene, ora che i soldati stanno partendo (Obama ha rispettato la data fissata da Bush senza concedere quella proroga che forse il governo iracheno, conscio dei pericoli, avrebbe accettato di buon grado a determinate condizioni), gli interrogativi sono tanti ma sostanzialmente quello importante è uno: ne è valsa la pena? A mettere sulla bilancia i sì e i no, questi ultimi prevalgono, non fosse altro che per le cifre sopra citate. In America, anche tra i repubblicani prevale lo scetticismo, ma non tanto – o non solo – sulla necessità di una risposta a tutto campo all’attacco terroristico delle Torri Gemelle, quanto sul mancato raggiungimento di un “nobile scopo”: quello, come detto, di esportare la democrazia. È vero, il premier e il presidente dell’Iraq sono stati eletti democraticamente ed è una grande conquista, ma con la partenza degli americani gli sciiti del Paese (in maggioranza) tenderanno a saldarsi con gli sciiti iraniani (anch’essi maggioranza e al potere) e con il vento fondamentalista che tira in quelle latitudini, la marcia democratica dell’Iraq, secondo gli esperti, fra qualche mese o qualche anno si fermerà, con il rischio di riportare all’indietro, molto indietro, l’orologio della storia. Resta piedi un solo motivo di consolazione: l’eliminazione di un crudele dittatore. Ma a questo punto ritorna l’interrogativo, a dire il vero retorico: valeva la pena di farlo con una guerra di quelle dimensioni? [email protected]