All’Assemblea nazionale del Pd esplode il dissenso sulle nozze tra omosessuali. Secondo Bindi gli italiani sono pronti per le unioni di fatto ma non per il matrimonio gay
All’assemblea della scorsa settimana il Pd ha avuto l’abilità di dividersi su due temi che, a ben vedere, non sono di primaria importanza, né per il Paese e né per il Pd stesso: le primarie per la scelta del candidato premier e il documento sui temi cosiddetti sensibili, cioè sulle unioni di fatto e il matrimonio tra omosessuali. Cominciamo da quest’ultimo tema, che da una parte ripropone un vecchio contrasto, dall’altra rilancia un argomento che sarà destinato a perpetuarlo di nuovo in futuro perché esiste una frangia, i cosiddetti gay laici di sinistra che, come ha detto Bersani, pensa di proiettare nel Paese le beghe di parte. Già nel 2006, dopo la vittoria di Prodi, ci fu uno scontro duro tra l’ala laica e quella cattolica nel Pd e in generale nell’unione. Allora, per iniziativa di Rosi Bindi, furono proposti i Dico, cioè i patti di solidarietà che riconoscevano alcuni diritti ai membri delle unioni di fatto, ma tagliavano fuori, di fatto, quelle omosessuali, soffocate, per così dire, in quelle di fatto. Insomma, le unioni gay erano anche verbalmente annacquate nel contesto più generale delle unioni di fatto. Come si sa, il provvedimento non ebbe seguito. Prodi era al governo e doveva tenere conto del Vaticano.
Ora, a distanza di alcuni anni e con la legislazione che in Europa ha fatto progressi impensabili fino a poco tempo fa (vedasi la Spagna di Zapatero e l’Inghilterra recente), nel Pd è stato istituito un Comitato per i temi sensibili, che la settimana scorsa, nell’ambito dell’Assemblea nazionale, si è riunito per votare sulla linea ufficiale del partito. Come anni fa, due le linee che si sono scontrate: quella di Rosi Bindi, presidente del Comitato citato che è sostenuto dalla maggioranza, e quello dei laici, sostenuto, tra tanti altri, da Paola Concia, Ivan Scalfarotto e Ignazio Marino. Rosi Bindi ha messo a votazione il documento elaborato dal Comitato che ha ottenuto la maggioranza dei voti e solo 38 contrari. In questo documento si parla di “formule di garanzia per i diritti e i doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali”. Per Bindi è una “linea molto avanzata”, per Paola Concia arretrata (“nei confronti dell’omosessualità non ci può essere l’apartheid, non possono esistere dirittucci”). La riunione si è risolta con insulti e lanci di tessere da parte di esponenti di associazioni gay che vogliono semplicemente il riconoscimento giuridico del matrimonio gay, senza arretramenti. Con l’approvazione del documento Bindi, comunque, il Pd ha probabilmente perso un pezzo del vasto mondo gay, ma ha approvato un documento che è comunque un dialogo e soprattutto una possibile convergenza con le altre forze politiche, centrodestra compreso.
E veniamo alle primarie, istituite proprio dal Pd nel 2005 e finora a livello nazionale realizzate due volte, nel 2005 e nel 2007, anche se sono state una sorta di primarie superflue, in quanto il candidato premier (prima Prodi e poi Veltroni) erano già stati decisi. Mesi fa, sono state rilanciate, con la formula delle “primarie aperte”, come ha ribadito anche la settimana scorsa Bersani, per cui già si sapeva che lo scontro sarebbe stato tra Bersani stesso e Matteo Renzi, il sindaco di Firenze definito il “rottamatore”, perché sostiene che bisogna far largo ai giovani e pensionare i vari D’Alema, Fassino, Bersani stesso ed altri che erano già deputati agli inizi degli anni 80. In fondo le primarie erano un atto di sfiducia nei confronti del Segretario, perché in tutti i Paesi avanzati il segretario del partito maggioritario è anche il candidato premier. Tuttavia, fino a quando le primarie avvengono all’interno dello stesso partito, ci può stare, come avviene negli Usa (primarie sia all’interno del partito democratico che di quello repubblicano). I problemi sorgono da una parte quando le primarie diventano di coalizione, col rischio che vinca il candidato di un partito più piccolo), dall’altra quando, come è avvenuto di recente, si cerca di fare un’alleanza con un altro partito, in questo caso con l’Udc, che vuole fare un’alleanza con il Pd, non una coalizione con il Pd, Sel e Idv.
In vista di quest’alleanza, giudicata importante dal Pd non solo per vincere, ma per poter governare con un programma compatibile, mentre il vertice del partito sulle primarie si mostra più cauto, l’ala movimentista di Renzi e quella prodiana di Arturo Parisi accusano il Pd di non volerle più o comunque di non volere le primarie vere. L’Assemblea nazionale, infatti, dicono i critici, ha approvato le primarie entro l’anno, ma non ha fissato la data.
Nel Pdl le primarie decise tre mesi fa, di fatto, sono state eliminate dalla candidatura di Berlusconi, nel Pd continuano ad essere punto di dissenso e continueranno ad esserlo fino a che non si chiarirà qual è il senso delle primarie all’interno, ripetiamo, non di una coalizione, ma di un partito che per giunta dovrà fare i conti con un alleato a cui – e Casini lo ha chiaramente e ufficialmente dichiarato – le primarie di altri non interessano (anche perché essendo partito meno forte dalle primarie l’Udc uscirebbe con le ossa rotte).
Si può comprendere la necessità di un dibattito interno vivace, ma che bisogno c’è allora di indire un congresso e di eleggere un segretario se questi poi non è ritenuto adatto a sfidate l’avversario per la leadership del governo nazionale? Diciamoci la verità: hanno ragione D’Alema, Fioroni, Franceschini e tanti altri quando dicono che le primarie così concepite sono inutili. Se si vuol fare un’alleanza ritenuta vitale per vincere e governare, non ci si può legare le mani con un’iniziativa che di fatto non aggiunge nulla alla democrazia, semmai è di ostacolo alla capacità di manovra che un partito deve comunque avere.