Il progresso scientifico ha rivoluzionato anche le stagioni della nostra vita, modificando tappe, linguaggio e speranze
Sulla scorta del libro di Marc Freedman (“Il grande cambiamento: affrontare la nuova fase oltre la mezza età”), il Financial Time ha pubblicato un articolo in cui si mettono a confronto le stagioni della vita di un tempo con quelle di adesso, rivelandone sia i cambiamenti anagrafici che quelli entrati nel linguaggio comune.
Dire che la durata media della vita è aumentata significa scoprire l’acqua calda, ma ognuno di noi, con i suoi ricordi, può facilmente verificare che le differenze sono notevoli. Dire che negli anni ’60 i sessantenni erano considerati “vecchi” non si rivela nulla di eccezionale. E’ così, anzi, era così. I sessant’anni o, peggio, i sessantacinque, erano l’anticamera della dipartita, ancora quattro o cinque buoni anni e poi si entrava in quella fase del chi-va-là. Ma c’era non solo l’aspetto anagrafico (essere vecchi a sessantacinque anni), c’era soprattutto quello fisionomico. Si accusava l’età anche fisicamente, lo si vedeva sul volto, dai movimenti. Insomma, dopo i sessanta si era vecchi, si veniva considerati vecchi, ci si sentiva vecchi. A parte, evidentemente, le eccezioni. Provate a chiedere alle persone che oggi hanno settant’anni e vedrete cosa vi diranno.
Va precisato un aspetto molto importante. Una volta, è vero che si era e si sembrava vecchi già attorno ai sessantacinque anni, ma c’era anche una spiegazione molto solida: si facevano lavori più duri, c’erano più contadini e meno impiegati, si lavorava di più, in campagna come in ufficio e nelle fabbriche. Insomma, le condizioni di vita erano più pesanti e le fatiche si facevano sentire sul “groppone”.
Ciò premesso, ecco le stagioni della vita di una volta. Da zero a 11 anni si era bambini; dai 12 ai 19 adolescenti; dai 20 ai 24 giovani; dai 25 ai 60 adulti; dai 60 in su anziani. Punto. Le “stagioni” erano cinque, si era adulti dai 25 in poi e anziani dai 60 in poi. Tra un sessantaduenne e un novantenne non c’era differenza né stagionale, né linguistica.
Le generazioni che si sono succedute dopo il boom economico degli anni ’60 hanno cominciato a fare salti biologici. Si allungava la vita, cambiavano le condizioni di lavoro e chi a 65 anni negli anni ’40, ad esempio, sembrava vecchio e decrepito, negli anni 2000 e oggi alla stessa età sembra un giovanotto (o quasi). Non c’è bisogno di dimostrazione, è sotto gli occhi di tutti, al punto che sembra un fatto normale mentre anni prima normale non lo era per nulla.
Dunque, anche le stagioni sono aumentate: non più cinque, ma nove; anche il linguaggio si è uniformato, adeguato alle definizioni anagrafiche e biologiche. Da zero a 10 si è bambini; da 11 a 20 adolescenti (si pensi che una volta a 19-20 anni una donna era già madre di famiglia); da 21 a 25 giovani; da 26 a 34 giovani adulti (ecco la prima novità); da 35 a 54 adulti; da 55 a 64 tardo-adulti (ecco la seconda novità); da 65 a 75 giovani anziani (terza novità: si è tornati giovani, seppure con un altro aggettivo a fianco); da 76 a 84 anziani (chi ci arriva) e da 85 in poi (sempre chi ci arriva) grandi anziani (quarta novità). In conclusione, le definizioni biologiche e linguistiche vanno spostate in avanti di circa 16 anni rispetto a prima. Ciò che prima si era a 60-65 anni, ora lo si è a 75-80. Niente male: è il progresso scientifico (in primo luogo la medicina), l’alimentazione e le condizioni di lavoro, senz’altro migliori. Una parola va spesa sull’alimentazione, che ha una doppia faccia: ci si nutre meglio, ma l’uso della chimica sta comportando anche l’insorgenza di malattie. Il 30% dei tumori dipende dall’alimentazione, dice Umberto Veronesi. D’altra parte, negli anni ’50 la speranza di vita per gli uomini era di 60 anni, oggi di 80; le donne sono passate da 65 a 85.
Sono, evidentemente, mutati anche gl’itinerari della vita. Una volta, tra i 20 e i 30 anni avvenivano l’ingresso nel mondo del lavoro, il matrimonio, i figli. Ora queste tappe da una parte si sono spostate in avanti, dall’altra si sono diluite negli anni: si trova lavoro con difficoltà, ci si sposa spesso dopo i 30 anni e oltre, anche le donne, e si fanno figli dopo i 35 anni (uno, al massimo due). Chi, invece, segue le tappe di una volta, a 65 anni si ritrova ad essere “giovanotto”, attivo e magari bisnonno.
E’ anche da queste situazioni che si misura – e si tocca con mano – il progresso.