Il clima di dialogo e di confronto sulle riforme, rilanciato in occasione del 25 Aprile dai massimi rappresentanti delle istituzioni – Presidente della Repubblica, del Consiglio, del Senato e della Camera – sembra tenere, anche se all’interno del Pdl e del Pd non mancano fibrillazioni che potranno ostacolare il cammino delle riforme.
È nota la posizione di Napolitano che, tra l’altro, dopo aver rifiutato la firma al decreto sulle Fondazioni liriche e chiesto chiarimenti al ministro dei Beni culturali e dopo aver ottenuto sia le modifiche che i chiarimenti richiesti, ha firmato il provvedimento. Anche Berlusconi rilancia sulle riforme manifestando fiducia che esse verranno fatte. In ogni occasione dice che “dalle liti non ci sarà nessun rallentamento” e che non ci sono rischi per la legislatura.
Dal canto suo, Bersani, pur insistendo sul fatto che Berlusconi “fa chiacchiere”, è pronto a dare una mano se si tratterà di proposte serie. Insomma, il clima è favorevole, ma nel corpo dei partiti si avvertono scosse, malumori e mal di pancia. Cominciamo dal Pdl, dove all’indomani della rottura tra Berlusconi e Fini, era scoppiata una tregua armata.
Nessun problema sulle differenze di opinioni – avevano detto vari esponenti sostenitori del premier – ma nessuna tolleranza verso correnti organizzate. Fini, da parte sua, in varie interviste televisive (Ballarò, Mezz’ora) ha ribadito punto per punto i motivi del dissenso, ma ha anche gettato acqua sul fuoco riconoscendo la leadership di Berlusconi e dicendo chiaramente che nel Pdl “non c’è dittatura” ma che si discute. Resta il fatto che esiste un gruppo di minoranza che altalena le manifestazioni di lealtà al partito alle critiche anche aspre.
Le dimissioni di Italo Bocchino da vice presidente vicario del gruppo alla Camera ne sono un esempio. Ha dato le dimissioni perché aveva manifestato in precedenza critiche incompatibili con la sua carica, poi, quando le dimissioni sono state accolte e, pare, addirittura concordate, ha parlato ufficialmente di “epurazione”, concetto rilanciato da Fini in pubbliche dichiarazioni. In definitiva, nel Pdl si è creata una minoranza che rassicura sulla lealtà al partito e al governo ma che potrà creare imboscate sui singoli provvedimenti, specie quelli più caldi. Di qui l’accusa a Fini che ufficialmente sarebbe per le riforme condivise, ma poi di fatto non sarebbe interessato a dare una mano.
È stato ricordato il tentativo nel 1996 di un governo Maccanico sulle riforme, fatto fallire proprio da Fini che appena superato un contrasto ne creava subito un altro, al punto che Maccanico fu costretto a rinunciare all’incarico. Soprattutto, è stato messo a fuoco il comportamento di Fini negli ultimi due anni, che, stando al racconto di La Boccetta, ex An, avrebbe siglato un accordo di massima con Casini e Rutelli in base al quale alla prima occasione favorevole avrebbe preso le distanze da Berlusconi con un gruppo di parlamentari a lui favorevoli costringendo il capo del governo al logoramento e successivamente alle dimissioni e nel frattempo rinsaldando il patto con Casini e Rutelli per creare un grande centro.
Vera o falsa che si la testimonianza di La Boccetta, questo tentativo è fallito dopo la vittoria alle regionali di fine marzo.
In conclusione, il premier è sempre forte, può contare sui prossimi tre anni di legislatura per “fare le riforme come un treno”, ha la possibilità di tenere a freno la minoranza e di guardare con fiducia alle cose da fare, ammesso che ci riesca.
Il Pd, come detto, si apre alla maggioranza sotto condizione, ma quei problemi che abbiamo descritto nella maggioranza, esistono anche nel partito di Bersani, dove c’è chi come D’Alema vuol fare di Fini un “interlocutore” e chi, invece, dice che Fini è uomo di destra (da lui stesso, tra l’altro, ammesso apertamente) e che il Pd deve fare politica, non tattica nella speranza di creare fratture negli avversari senza avere ben chiaro cosa fare nel futuro. I dissidi nel Pd, infatti, sono estesi e incrostati, al punto che Bersani, in un’intervista a YouDem, ha esclamato: “Mi sono scocciato (…) non è picconando il centrosinistra che si risolvono i problemi: è una vergogna l’attitudine autodistruttiva”.
Nel Pd c’è stato un tentativo (Andrea Orlando) di dire alla maggioranza “queste sono le nostre proposte sui vari temi, confrontiamoci”, ma poi lo stesso Orlando è stato subissato di critiche per averlo fatto. Insomma, nel Pd ci sono correnti che paralizzano la vita del partito e non sembrano riconoscere la guida di Bersani. C’è unità solo sull’antiberlusconismo. Vecchia storia.
I pericoli alle riforme nascono nell’uno come nell’altro schieramento proprio dalla capacità di paralisi delle minoranze, con gli estremisti (la sinistra radicale e l’Idv) a cui sta bene questa situazione perché potrebbe logorare il governo ed erodere elettoralmente il Pd stesso (ultimo abbandono quello dalla Sbarbati).
Nel frattempo, nella maggioranza è scoppiato il caso Scajola, accusato di aver acquistato un appartamento con vista Colosseo con buona parte dei soldi riconducibili al costruttore Diego Anemone che con Angelo Balducci è in carcere per corruzione. Il ministro, in un’intervista apparsa sui giornali ha detto la sua verità, e cioè che l’appartamento l’ha comprato quando è andato ad abitare a Roma e l’ha pagato con un mutuo bancario ancora in corso, che la somma pattuita con le venditrici era di 610 mila euro e che del resto non sa nulla.
Per ora le dimissioni del ministro sono state rifiutate: nella maggioranza, come anche in buona parte dell’opposizione, si è molto cauti, memori della vicenda di Ottaviano Del Turco, arrestato nel 2008 in base a “prove schiaccianti” che poi si sono rivelate solo fumo e nulla più.