Ho sfidato per decenni le rampe che, dai 1200 di Bormio, portano ai 2800 del passo dello Stelvio. La legnano e la bianchi all’inizio, quando ancora non esistevano i telai in carbonio, la colnago poi, i compagni di viaggio per condividere fatica e sudore. Talvolta, raggiunto il culmine, controllavo lo stato del mezzo quasi fosse un vivente che aveva vissuto lo sforzo dell’interminabile ascesa Da giovane- ho perduto il conto degli anni- arrivato alla vetta, scendevo verso il trentino fermandomi a Trafoi, il villaggio del grande Thoeni. Risalivo poi, dopo un fugace ristoro alla baita del cacciatore, felice di violentare i tornanti del grande Fausto in quel 1953, l’anno in cui annientò le speranze rosa di Koblet, un poeta del ciclismo degli anni cinquanta. All’andata o al ritorno, dipendeva dagli umori, dal tempo o dalla stanchezza, mi fermavo ai duemila e trecento del versante della Valtellina. Lassù, tra la roccia e il torrente, discreto nella sua austera grandezza, si erge il monumento ai caduti della grande guerra 1915- 18. Mi raccoglievo in silenzio pensando ai tanti giovani morti e abbandonati tra i ghiacci dello Stelvio e dell’Adamello. Per tanti di loro , il ghiacciaio sarà l’abbraccio per l’eterno riposo.
Immaginavo l’affanno dei loro respiri nel mentre perivano guardando alle stelle in cui apparivano i cari della casa natia, la giovane sposa in attesa di un figlio, creato forse nell’ultima notte d’amore, il babbo e la mamma, schizzi degli anni in cui sgambettarono felici nella loro spensierata giovinezza. E forse, poco distante, giaceva il nemico caduto per primo, anche lui convinto di essere venuto quassù a difendere una sua Patria. Carne da macello da ambo le parti, periti per accompagnare i sogni di gloria dei satrapi di ogni e qualsivoglia impero e colore. Ogni volta ne leggevo i nomi, l’età, la provenienza provando dei brividi e non solo per il freddo dovuto all’altura. Compresi più tardi, visitando Verdun, una landa distesa e infinita di croci, il senso profondo dell’odio che spinse i potenti a sacrificare la migliore gioventù. Riflessioni di viaggio. Sto andando a Ginevra a incontrare gli alpini di quella città in cui ho vissuto un tempo, pur breve, di intenso e convinto impegno politico. Già, gli alpini. Per me, per noi tutti, giovani della valle amica, l’alpino è sempre stato il fratello, l’amico. Nei giorni tristi e in quelli più lieti. Visitando i vicini ti appare il cappello piumato, appeso nel posto più sicuro e discreto.
Ti appare nei giorni solenni in ogni e qualsiasi momento che segna o ricorda una svolta legata agli umani. Nel sentire comune l’alpino è simbolo di onestà e coraggio accompagnati alla assoluta lealtà. Gli alpini di Ginevra celebrano, in occasione della commemorazione dell’unità nazionale e delle forze armate, il loro cinquantesimo anniversario della fondazione. Una festa semplice e solenne, impeccabilmente diretta dal presidente Antonio Strappazzon, coadiuvato, per l’occasione, da Fabio Brembilla, presidente della sezione Svizzera e da Ferruccio Minelli, responsabile della sezione esteri dell’Associazione Nazionale Alpini. Una festa di popolo, con i tanti alpini ginevrini e della Confederazione, accompagnati da mogli, figli e nipoti a onorare e festeggiare i convenuti dall’Italia. Un sentimento forte di straordinaria memoria per uomini che, dopo aver servito la patria, hanno riscattato di nuovo il tricolore con il sacrificio e l’impegno di chi partì per il mondo con la valigia vuota, riempita di coraggio, onestà civile e umana. Sono centinaia, alla sera del sabato e migliaia il giorno dopo al cimitero di Saint George, davanti al monumento dei caduti italiani, cui abbiamo reso omaggio assieme al console italiano, Andrea Bertozzi, al presidente della Saig, Carmelo Vaccaro, alle autorità civili e militari italiane, svizzere, di tanti altri paesi d’Europa e del mondo. Ho portato un saluto. Sarei stato lieto di aggiungere l’omaggio del parlamento, i cui componenti ignorano spesso la straordinaria ricchezza del patrimonio italiano nel mondo. Figli del secolo delle guerre e dei totalitarismi. Eroi, malgrado loro, di un mondo antico e dilaniato, hanno tratto dalla storia l’anelito per andare avanti, per costruire la società europea della convivenza e dell’amore, nel segno della pace e della fratellanza universale. Arrivederci, cari amici.
Riparto con un po’ di nostalgia. E chissà? I volti sereni di queste giornate accompagneranno l’animo mio nel lavoro di sempre per il rinnovamento civile e morale della nostra Italia.