Barack Obama punta i piedi: a fronte di dichiarazioni concilianti di Washington sul nucleare iraniano e sullo yuan, la Casa Bianca ha annunciato che tra qualche giorno aprirà al Dalai Lama le porte della Casa Bianca. L’annuncio del portavoce Robert Gibbs ha alzato il livello dell’incontro tra il Presidente degli Stati Uniti e il leader spirituale dei buddisti tibetani. Il Dalai Lama, “un esponente religioso e culturale rispettato in tutto il mondo”, ha detto Gibbs, sarà accolto nella residenza presidenziale come era successo nel 2007 quando era Presidente George W. Bush.
In altre occasioni invece il Dalai Lama era stato ricevuto alla chetichella: i riflettori puntati sull’appuntamento di metà febbraio – il 17 o il 18 quando il leader religioso sarà a Washington – inevitabilmente inaspriranno il confronto con Pechino dopo che in ottobre i cinesi erano riusciti a far rinviare la visita dopo il viaggio di Obama in Cina.
Ma al di là della sfida sul Dalai Lama e a dispetto dei toni aspri arrivati dalla capitale cinese, l’amministrazione Obama ha cercato uno spiraglio di distensione dopo giornate di schermaglie verbali: “La Cina continuerà a cooperare con gli Usa” sui “prossimi passi” per il nucleare iraniano perché Teheran con la bomba atomica non è interesse di Pechino, ha detto Gibbs. Peraltro, esprimendosi sull’apertura iraniana sull’arricchimento dell’uranio, la Cina aveva commentato che “parlare di sanzioni in questo momento complicherebbe la situazione”.
Nonostante la dura reazione cinese alle accuse Usa di favorire il suo commercio con un cambio artificiale della sua moneta (“Il tasso di cambio è a un livello ragionevole” e la Cina “non persegue deliberatamente un surplus commerciale con gli Usa”, ha risposto Pechino alle accuse di Obama), il ministro del Tesoro Timothy Geithner, parlando in Senato, ha detto di aspettarsi “progressi” sul fronte della valuta e che è “molto probabile” che la Cina vada nella direzione di uno yuan più flessibile.
Come simbolo del peggioramento dei rapporti Cina-Usa non poteva esserci immagine più azzeccata: ha lasciato Washington l’amatissimo panda gigante Tian Shin, figlio dei due ambasciatori di buona volontà Mei Xiang e Tian Tian in prestito da dieci anni allo zoo della capitale. Ma mentre si infittisce lo scambio di colpi nella schermaglia fra i due giganti della terra, Cina e Stati Uniti, il fronte del contenzioso si è allargato per estendersi a Unione europea e Svizzera.
Pechino ha trascinato le misure antidumping dell’Ue sulle sue calzature davanti all’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) e protestato con Berna, che ha accettato di ospitare “per motivi umanitari” due prigionieri uighuri rilasciati da Guantanamo. Il gesto della Svizzera, dice Pechino, “sicuramente minerà i rapporti” fra i due Paesi.
Gli uighuri sono della comunità di religione islamica e lingua di ceppo turco che abita un’altra regione travagliata della Repubblica popolare: quella dello Xinjiang.
Ma è soprattutto con gli Usa che i motivi di attrito sono a tutto campo: dalla moneta a internet, con Pechino che nega di essere dietro gli attacchi di hacker contro il mega motore di ricerca Usa Google, al Tibet, dai diritti umani fino a Taiwan.
Per l’isola, che Pechino considera una sua provincia ribelle, la Cina ha sparato una bordata oltre Pacifico, definendo “appropriate” le sanzioni minacciate contro la vendita di armi per 6,4 miliardi di dollari che Washington ha promesso a Taipei.