Il Summit di Rio (Rio+20, perché seguiva di vent’anni il primo) sull’ambiente è stato un fatto storico, ma a dirlo sono solo i brasiliani che lo ospitavano e, chissà perché, anche il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini. Del resto a smascherare la storicità dell’avvenimento è stato Clini stesso, quando ha associato il giudizio positivo al fatto che il documento era stato firmato da tutti. Il fatto è che, a giudizio degli esperti, dei giornalisti e degli specialisti, il documento era un elenco di cose che si dovrebbero fare, ma senza né tempi, né risorse. Neppure un impegno concreto con una scadenza precisa. D’altra parte, nessuno dei leader politici è andato a Rio, tranne il neopresidente francese François Hollande, il cui intervento comunque non ha lasciato traccia.
Il fatto che ci si trovi nel mezzo di una crisi economica senza precedenti forse ha determinato il suo totale fallimento (“Epic failure”, lo ha definito il direttore di Greenpeace, Kumi Naidoo). Gli è che avrebbe potuto almeno rappresentare un’occasione di dibattito per proporre un nuovo modello di sviluppo, diverso da quello che si basa sulla crescita quantitativa, invece non c’è stato neppure quello. Dicevamo che solo Hollande è andato a Rio: nemmeno Obama ci è andato, eppure aveva impostato la campagna elettorale del 2008 proprio sull’ambiente, sulla sua difesa, sull’energia alternativa, insomma, su un modello di sviluppo sostenibile.
Invece, ora, malgrado l’esplosione della piattaforma Bp nel Golfo del Messico, la Casa Bianca ha messo in vendita quasi 17 milioni di ettari di nuovi tratti del Golfo per le trivellazioni petrolifere. Mai come in questi giorni è apparso chiaramente che i governi o i singoli ministri o anche i partiti parlano dell’ambiente giusto perché non ne possono fare a meno, per non apparire reticenti, ma in realtà il tema ambiente non interessa nessuno fin tanto che non diventa un problema reale per qualcuno. Le stesse trivellazioni interessano solo chi ci abita vicino, esattamente come solo chi ci vive vicino si oppone alle discariche. I primi produttori di CO2 sono i cinesi con 8 milioni e 320 mila tonnellate. Lo stesso ministro cinese ha confessato di recente che è consapevole dei danni all’ambiente, ma che il principale interesse della Cina è di svilupparsi, non di pensare all’ambiente. Ha voluto dire che i problemi ambientali riguardano solo i Paesi avanzati, i quali, per il fatto stesso di essere avanzati, possono pensare anche ad altro. Nella classifica dei peggiori ci sono al secondo posto gli Usa, con 5 milioni e 610 mila tonnellate di CO2 e, al terzo, la Russia, con un milione e 610 mila tonnellate. Insomma, dell’ambiente se ne parla, ma poi tra il dire e il fare, spesso, c’è di mezzo il mare.
C’è chi ha detto che quello di Rio forse è stato l’ultimo dei Summit sull’ambiente, perché è stato l’ultimo dei fallimenti, dopo quelli precedenti, in particolare Copenaghen. Non ha tutti i torti. Il che, evidentemente, non vuol dire che i problemi ambientali non debbano essere messi al centro dell’agenda della comunità internazionale, vuol dire semplicemente che deve cambiare l’approccio a questi temi. In poche parole, più che fare dei Summit con migliaia di delegati provenienti da tutto il mondo e portatori di interessi contrastanti, ci si deve chiedere se non valga la pena che ogni Paese si occupi dei temi ambientali che ha e che ognuno trovi le soluzioni adatte. In fondo, ne va della salute e dell’equilibrio ambientale di quel determinato Paese, più motivato a risolvere i suoi problemi che quelli degli altri, che non si vedono e non si toccano con mano.
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