In Sicilia si torna a coltivare le sementi antiche anche se meno produttive, in Svizzera sempre più aziende puntano al biologico
I numeri parlano chiaro: l’ultima statistica della Confederazione mostra un aumento delle aziende agricole a coltivazione biologica. Sono oltre 7000 le fattorie che si sono convertite al bio occupando il 15,4% dei terreni agricoli in Svizzera raggiungendo un aumento di quasi il 5% rispetto all’anno precedente. Il bio si riserva ai prodotti ortofrutticoli, ai vitigni e alle piante medicinali e aromatiche. Poco, per ora, lo spazio per i campi di grano che osservano criteri naturali ma qualcosa si sta smuovendo su questo fronte, soprattutto in Italia, in Sicilia. Negli ultimi anni sono stati favoriti alla crescita dei super semi di frumento appositamente selezionato per garantire al produttore un buon rapporto di qualità e ricavo economico. Tutto questo a discapito di tipologie che rendevano meno e le cui culture pian piano sono state abbandonate, quasi dimenticate se non nella memoria di coltivatori ottuagenari. A perorare la causa è l’associazione Simenza – cumpagnia siciliana sementi contadine – che ha raccolto sotto la sua ala settanta produttori che stanno sperimentando coltivazioni alternative studiando dei miscugli di semi. Una tendenza assolutamente contraria alla tecnica di selezione moderna che tende a ricercare semi tutti uguali, uniformi e standardizzati per un risultato omogeneo e con meno problematiche possibili. Si parla quindi di “RETRO innovazione”. In Sicilia, già granaio dell’impero romano, l’antica memoria della biodiversità è tornata con prepotenza ad interessare anche i piccoli coltivatori che hanno scelto una direzione meno globale e più territoriale con coraggio. Nei campi di Simenza, di cui si prevede nel breve futuro un’occupazione di 3000 ettari di terreno, la variabilità e la miscelazione di semi differenti, producono una selezione naturale che si adatta in modo istintivo alle condizioni ambientali e si auto protegge dalle malattie: il risultato è una migliore sopravvivenza verso le specie infestanti e un naturale adattamento ai cambiamenti climatici. Un frumento più forte e più sano. La domanda sorge spontanea. Come mai non si è sfruttato questo metodo di coltivazione già negli anni passati? Perché per l’adattamento ci vuole tempo. Servono alcuni cicli vitali prima che si confermino queste caratteristiche in una coltivazione e, come è ovvio, il mercato mondiale, l’economia agricola e le multinazionali di tempo da perdere non ne hanno. Anzi, più si produce velocemente consumando anche le risorse del terreno, più si guadagna, più si riescono a trovare prodotti economici sul mercato facendo girare l’economia. Senza addentrarci in problematiche di economia globale cerchiamo, in ogni caso, di dare credito e fiducia in questi progetti che potrebbero essere una valida alternativa per la salvaguardia dell’ambiente o di alcune aree agricole in un futuro non troppo lontano. Nel frattempo il frumento antico ha già cambiato il paesaggio: sui Nebrodi, sulle Madonie e sui Peloritani sono ritornati i campi di grano scomparsi da tempo. Il processo di cambiamento è visibile anche negli studi di medicina in cui si conferma lo stretto rapporto tra quello che ingeriamo e l’insorgere di malattie come la celiachia, le intolleranze al glutine o il diabete. Le correlazioni che ne scaturiscono sono allarmanti e se “siamo quello che mangiamo” è doveroso preoccuparsi maggiormente sulla provenienza e coltivazione delle materie prime dando supporto a queste realtà che si stanno pian piano confermando in totale, ribadiamo, valida e fruibile controtendenza.