Quando Omar Suleiman ha annunciato alla televisione egiziana che “Mubarack ha deciso di lasciare la sua posizione di presidente della Repubblica e ha incaricato le forze armate di gestire gli affari della nazione”, nelle piazze e nelle strade c’è stato un tripudio di mani e di voci inneggianti alla vittoria e alla libertà. Dalle strade del Cairo alla Casa Bianca: il Presidente Obama, alla notizia delle dimissioni di Mubarack, ha brindato alla vittoria dichiarando che “al Cairo ha trionfato lo spirito di Luther King” e che “siamo testimoni della storia in marcia”.
Dove non si è festeggiato affatto è in Israele e nell’Arabia Saudita, che dall’uscita di scena dell’ex presidente hanno tutto da perdere e nulla da guadagnare. Prima con Sadat e poi con Mubarack, l’Egitto ha rappresentato per Israele un Paese confinante non ostile, dunque non un nemico.
Omar Suleiman, nominato vice presidente di Mubarack una settimana fa nel tentativo di far rientrare la protesta popolare, era l’egiziano che aveva la fiducia sia di Israele che della Lega Araba come capo dei colloqui prima indiretti e poi diretti tra palestinesi e israeliani. Per Israele, Mubarack era una garanzia contro il fanatismo islamico e al tempo stesso uno Stato oppositore dell’Iran e dunque utile, diplomaticamente e militarmente parlando.
I timori di Israele per il dopo Mubarack sono comprensibili. Se, ad esempio, in Egitto i Fratelli Musulmani troveranno una strada non sbarrata verso la conquista di un maggiore consenso, è chiaro che la saldatura con l’Iran diventerà un pericolo per Israele e per l’intera regione. Lo stesso discorso si può fare con l’Arabia Saudita, un Paese notoriamente contro l’Iran, al punto che il re saudita sarebbe disposto a spegnere i radar per lasciar passare nel suo spazio aereo eventuali bombardieri israeliani diretti verso un Iran dotato in futuro della bomba atomica e minaccioso della sicurezza di Israele.
I giornali hanno riportato i contenuti di una telefonata intercorsa giovedì della settimana scorsa tra Obama e l’anziano re saudita Abdallah, in Marocco per un intervento chirurgico.
Mentre Obama gli annunciava che intendeva far pressione, anche chiudendo i rubinetti degli aiuti finanziari, sui generali egiziani per obbligarli ad assumere una iniziativa più decisa per costringere Mubarack a dimettersi, il re saudita lo supplicava di concedere ad un alleato fedele come Mubarack il tempo di uscire di scena con dignità. E quando ha visto l’irremovibilità di Obama, si è dichiarato disponibile ad aiutare lui economicamente l’Egitto, ma ancora una volta Obama è stato irremovibile.
Poi si sa come è andata: Mubarack, per sbeffeggiare gli Usa, al posto di annunciare le dimissioni, ha dichiarato che sarebbe rimasto fino a settembre, salvo poi dimettersi il giorno dopo.
Perché il re Abdullah ha difeso Mubarack? Non ci sono solo motivi di amicizia personale, c’è soprattutto – ancora una volta – il timore che con la vittoria della piazza il partito islamico guadagni consensi e potere. C’è in più il timore che le proteste si diffondano in tutti quei Paesi filo occidentali, come l’Arabia Saudita stessa, che diventino incontrollabili e che, all’opposto, i Paesi filoiraniani restino impermeabili e dunque che l’Iran rafforzi la sua egemonia in tutta la regione.
Se i timori di Israele e dell’Arabia Saudita si dimostreranno fondati, Obama passerà alla storia come il novello Jimmy Carter, come colui cioè che per favorire la democrazia in Iran aiutando a mandare via lo Scià ottenne un regime ancora più oppressivo, quello di Komeini, con conseguenze ancora più disastrose per la pace nella regione. Se, invece, non si verificherà nulla di tutto questo, se per davvero saremo “testimoni della storia in marcia”, allora quello che in questo momento può essere giudicato come il grande azzardo di Obama, sarà stato il fiore all’occhiello della sua politica estera.