Marcinelle e Mattmark: nomi, storie, tragedie da non dimenticare
Si è celebrata, giovedì otto Agosto, la giornata nazionale del sacrificio e del lavoro italiani nel mondo. Migliaia, come ogni anno, sono stati a Marcinelle assieme al Presidente della Camera, Laura Boldrini. Sì, a Marcinelle, a ricordare i caduti del 1956 al bois du cazier, a rinnovare, 57 anni dopo, l’affetto e la riconoscenza, a rinsaldare la memoria su una tra le più drammatiche vicende dell’emigrazione italiana nel mondo. Marcinelle ci indica il cammino, partendo da quel fatale rintocco della campanella che annunciava il sacrificio dei vinti.
L’immigrazione esiste dagli albori dell’umanità. Siamo i popoli della terra, ed è nella nostra natura scoprirla, conoscerla, arrestarsi là ove pensiamo di aver trovato un approdo sicuro per dare risposte ad una speranza. Come per tanti popoli, i figli della terra italiana sono partiti non tanto per scoprire il mondo o per arricchirsi, ma per carpire la speranza di un avvenire più giusto e umano. Storia italiana. Di una patria antica che cercava la via maestra dell’unità dei tanti suoi popoli. E della sua storia moderna, in quel dopoguerra in cui l’Italia, riscattato il tricolore dalla vergogna fascista, cercava la via del riscatto nel contesto dei popoli e delle nazioni. È fissato nella nostra memoria l’esodo di massa , la diaspora di un popolo in viaggio sui mari o dentro quei treni affollati da una umanità disperata e sconfitta. Oltre le alpi verso una meta.
Per arrestarsi nella Confederazione degli elvezi – i soli miracolati dalla tragedia della guerra – nelle terre dei germani e dei galli, o più su , in Vallonia, a scavare il grisù nel profondo della terra per qualche chilo di carbone, la linfa vitale alla ricostruzione della nazione italiana. Un lavoro massacrante, inumano, in cui il diritto era racchiuso in una sola speranza: poter ogni giorno risalire cercando tra il grigiore del nord un debole raggio di sole che lo riallacciasse per un attimo alla sua terra. Raccontava, un sopravvissuto alla morte nel fondo del pozzo infernale, di aver vissuto, da allora, con un senso di colpa verso i 262 minatori di ogni credo e nazionalità periti laggiù tra i quali i 136 italiani, i ventidue di Manoppello in Abruzzo, il villaggio che pagò il sacrificio più grande. E nessuno ha mai raccontato la sorte dei cavalli portati nel fondo del pozzo a trainare il grisù per non più risalire. Scendendo – disse il vecchio- li guardavo negli occhi pensando che essi sapessero della loro condanna: di scendere, per non più ritornare al tepore del maniero, alla stalla.
Eravamo isolati, offesi, umiliati nella nostra dignità: braccia di lavoro e nulla più, come affermò il grande intellettuale svizzero , Max Frisch. Da quella tragedia qualcosa migliorò: maggiore attenzione alla sicurezza, turni meno massacranti di lavoro, migliore protezione contro la polvere sottile che accerchiava i polmoni in un abbraccio mortale, e la diaspora italiana iniziò, da allora, il lungo cammino del riscatto. Eppure, nessuno dei nostri migranti, nelle terre d’Europa e del mondo, ha mai accusato le comunità ospitanti d’essere malvagi, distanti e sospettosi. È successo. Succede. La sorte dei popoli che non si conoscono e che devono, pazientemente, apprendere la ricchezza dell’incontro per vivere e progredire assieme. Tuttavia, ogni popolo – è scritto nella storia dei secoli e dei millenni- prima o poi ci arriverà. Ricordo sempre le straordinarie frasi di Junot Diaz, lo scrittore americano immigrato da Santo Domingo, che riassumono il decorso storico di quella grande nazione con una splendida frase: l’America è una strana nazione di immigrati che pretende il contrario senza rendersi conto della ricchezza sua nata dall’incontro e dall’abbraccio..
È la sfida nostra, .di un popolo emigrato che difende la memoria, le sue radici e costruisce l’unità. Possiamo guardare al di là dell’oceano, alla storia multi centenaria del suo popolo, ferocemente, indubitabilmente, americano. Americano, anche se il figlio dell’irlandese festeggia ancora San Patrizio a Chicago, i ragazzi e le ragazze cinesi preparano con amore il loro anno asiatico a Chinatown, e i discendenti italiani profumano il palato con i leggendari spaghetti, tra una parlata e l’altra del dialetto palermitano o napoletano. Hanno creato assieme una grande nazione, partendo dalle nostre stesse ragioni: il lavoro e un migliore avvenire per i loro figli. Hanno costruito un paese possente e unito, talmente unito che il loro presidente è assurto dalla comunità nera, quella che non scelse di partire verso il nuovo mondo ma fu costretta dalla forza, dallo schiavismo assassino e disumano. Sono riusciti a costruirlo laggiù.
Possiamo ripeterlo noi con l’Unione, nelle terre della vecchia Europa. Raccogliendo l’appello del presidente della repubblica , Giorgio Napolitano, celebrammo, due anni or sono, il 150° dell’unità d’Italia. L’unità d’Italia dei sentimenti e delle ragioni. Una mescolanza di storie vissute che sono esempio e ammonimento per tutti, anche e soprattutto per noi, oggi, in Italia. E per i milioni di immigrati che vivono quaggiù a cui va riservato il diritto ad essere cittadini nei diritti e nei doveri di una nuova patria. E tanti ragazze e ragazzi, i nipoti di quegli eroi del lavoro a cui il destino ha indicato la strada: cittadini italiani, cittadini d’Europa, costruttori di una Unione fondata sulla pari dignità dei diversi e solidali. Il Mahatma Gandhi, l’apostolo della non violenza, affermava che la “regola d’oro della condotta di ognuno è la tolleranza reciproca”. Ci permette di veder l’insieme della verità e ci fa tutti più ricchi e umani.
Il sacrificio italiano nel mondo, a Marcinelle, come, più tardi, il 30 agosto del 1965, a Mattmark sulle mantagne vallesane, ove perirono, travolti da una valanga di neve e fango, altri 100 lavoratori, 59 dei quali cittadini nostri, lo vorrei riassumere con le parole del sindaco di La Louvière, accorso, in quello storico 2011, a salutare i suoi cittadini di origine italiana.
Grazie, cari amici, per tutto quanto avete dato, disse. Vi è nella vostra voce, nell’animo di ognuno, il sole che a noi manca. Senza di voi, a noi non resterebbe che la pioggia. Siamo rimasti, caro sindaco, a Marcinelle, a La Louviére, in Vallese come altrove in questa nostra Europa e nel mondo. Siamo rimasti con il sole e con la pioggia, per costruire l’Europa che sta nei nostri cuori.