“Ci sono tante linee narrative che possono essere sviluppate nel film, per questo dico
sempre che bisogna vederlo più volte”. Il pensiero è esatto, perché quando si va al
cinema per assistere a “Il mangiatore di pietre”, il primo lungometraggio filmico firmato dalla regia di Nicola Bellucci, i dubbi e i punti di domanda non mancano. È un film tutto da scoprire che si rivela lentamente, permettendo allo spettatore un coinvolgimento totale nell’intrigo noir che trae spunto dall’omonimo libro dello scrittore piemontese Davide Longo che ha preso parte attivamente alla stesura della scenografia. “Il mangiatore di Pietre” è attualmente in proiezione in Svizzera. Abbiamo incontrato Nicola Bellucci e Davide Longo e dalla lunga chiacchierata è venuta fuori questa doppia intervista…
Nicola Bellucci
Perché hai scelto di mettere in scena il libro di Davide Longo “Il mangiatore di pietre”?
In genere cerco di fare quello che più mi interessa e questo mi toccava delle corde profonde. Leggendo il libro di Davide sono rimasto molto colpito da come si sviluppa la relazione padre-figli. In modo particolare la focalizzazione del rapporto tra padri falliti e figli infelici. La cosa mi ha colpito molto e ho costruito un film partendo dal romanzo di Davide, cercando di farlo mio partendo da questi impulsi e desideri. Oltre a questo, mi piaceva molto che il libro fosse già costruito in maniera molto filmica, leggendolo vedevi il film, sembrava quasi una sceneggiatura.
Nel film c’è un passaggio molto importante che richiama al titolo, la storia del sasso in bocca durante la prima traversata di un passeur che però nel libro neanche c’è…
È stata una trovata nata da un’idea di entrambi. Ho chiesto a Davide a cosa alludesse il titolo de “Il mangiatore di pietre”. Nel libro il titolo ha valore metaforico e indica un uomo che riesce ad ingoiare certe situazioni dure ed emozioni difficili da digerire, come le pietre. Era una metafora difficile da tradurre in immagine filmica per cui abbiamo creato la storia della pietra in bocca che si è evoluta in prova per i passeur.
Ci sono anche altri tratti che differenziano il romanzo dal film?
Nella stesura della sceneggiatura abbiamo eliminato tutti i rimandi al passato che nel romanzo erano narrati attraverso diversi flash back. Solo la scena iniziale, il confronto con la moglie di Cesare in carcere, che però nel libro manca, è l’unica scena che cerca di assolvere e descrivere la vita precedente del protagonista. In generale c’è stato anche un cambiamento iniziale nella struttura del plot.
Quali sono i tratti peculiari di questo film?
Non è un film che si rivela subito, forse occorre vederlo più volte per svelarne tutti i lati oscuri. Molti mi hanno detto che i primi minuti sono confusi e non riescono a capire che direzione voglia prendere la vicenda. Solo alla fine tutto si risolve, anche se per molti versi restano ancora diversi punti interrogativi. Il film può avere diverse chiavi di lettura, per questo sono dell’idea che debba essere visto almeno due volte.
Ci sono delle riflessioni che con “Il mangiatore di pietre” sei riuscito a trasmettere?
In genere non mi interessa lanciare un messaggio, ho solo cercato di creare una struttura narrativa e una forma dentro la quale faccio circolare le emozioni e una forma di stilizzazione. A posteriori, anche se non era nella nostra intenzione, è arrivato un film sull’immigrazione e sono contento che casualmente abbiamo abbracciato questa tematica, dando un senso di umanità e giustizia. E venivo anche da esperienze personali che mi avvicinano alla causa. Tra l’altro interiormente ero nella predisposizione giusta per affrontarla. Il mio lavoro precedente è “Grozny Blues”, con cui guardo la situazione drammatica in Cecenia e penso che ce ne vorrebbero di più di passeur. Anche la tematica dell’essere padre, presente nel film e nel libro, oggi è molto importante. In particolare l’idea che essere padre è principalmente una scelta non dettata necessariamente da un fattore biologico, come si vede nel rapporto che si instaura tra i due protagonisti, Cesare e il giovane Sergio.
L’elemento della montagna e la descrizione dettagliata in immagini di questi luoghi sono forse un tratto che evidenziano la tua passione per i documentari. Che valore ha l’ambientazione scelta?
Il romanzo è sicuramente compenetrato nella valle Varaita, racconta fortemente un luogo e una zona specifica, ma ancor più racconta un luogo atemporale, un luogo simbolico e più astratto. Non sentivo la necessità di raccontare necessariamente quella valle, con cui io non ho certamente la relazione che ha Davide. La montagna è un luogo che sento e il film ha un’atmosfera che si avvicina a quella del romanzo ma fa anche un passo ulteriore e racconta una storia eterna.
Passando alla scelta degli attori protagonisti…
Gli attori sono stati una mia scelta e quindi corrispondono a quello che era la mia idea. Li ho scelti tra attori e non, soprattutto per i ruoli minori, molti sono persone del luogo.
Gli attori principali sono stati scelti per la loro caratteristica di essere più vicini, “documentaristicamente” parlando, al ruolo che hanno interpretato. A parte Lo Cascio che è stata un po’ una scommessa. Ci siamo chiesti se un siciliano che ha vissuto a Roma e ha sempre fatto ruoli intellettuali di piccolo borghese può interpretare un rude montanaro della valle Varaita. Secondo me ha funzionato.
Considero Lo Cascio un grandissimo attore che riesce ad esprimere un sentimento profondo senza parlare, anche solo con uno sguardo. Non volevamo un protagonista tipico montanaro e rude, ma una personalità molto più complessa. Questo è un pensiero che abbiamo condiviso con Davide.
Davide Longo
Come hai accolto la notizia del film su “Il mangiatore di pietre”?
In realtà i diritti per il cinema del romanzo erano stati comprati oltre 15 anni fa, prima da Fandango e poi da un produttore tedesco. Il libro è stato in predicato di diventare un film per molto tempo, quando la cosa si è concretizzata è stata una vera sorpresa per me: finalmente il mio libro diventava un film!
Raccontaci la genesi di questo thriller noir ambientato in una terra di confine…
Nasce da un luogo che è la valle Varaita, una valle del cuneese, dove ho una piccola e isolata casa di montagna da quando avevo 4 anni. Sono molto legato a quei luoghi che conosco molto bene. È questo l’unico aspetto autobiografico, non tutto il resto. Tutto quello che ruota attorno alla storia, a partire dalle vicende come l’omicidio o anche la storia dei passeur e del transito dei clandestini, non riguarda assolutamente questa zona e mi è stato suggerito dall’amore letterario per Francesco Biamonti, uno scrittore che amo molto, che ambienta storie di passeur nell’entroterra ligure.
Il libro ha due poli principali che lo animano. Uno è l’importanza della trasmissione del tuo sapere, della tua esperienza, come per Cesare, il protagonista, per il quale tutto ha un senso se riesce a trasmettere ciò che sa fare. Tutto ciò ha sempre un costo, è un sacrificio talvolta doloroso, perché prevede che mentre tu stai passando non stai più vivendo, e richiama all’idea che l’esperienza genitoriale è sempre una forma dolorosa poiché perché l’altro cresca tu devi in qualche modo rallentare. L’altro polo ideale che muove il libro è che a volte è difficile capire quello che è giusto e quello che è sbagliato. È vero che il libro poggia sulla certezza che in realtà è semplicissimo capire ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ma spesso quello che è giusto costa di più di quello che è sbagliato.
I protagonisti che hai visto personificarsi nella pellicola sono come li avevi immaginati?
Da quando ho creato quei personaggi è passato tanto tempo ed è un po’ l’effetto che fa quando rivedi persone che avevi incontrato una quindicina di anni prima e le trovi parecchio cambiate. Però ti viene il dubbio che forse non siano cambiate ma che non le avevi viste bene prima. Mi è successo soprattutto col personaggio di Sergio, il giovane ragazzo. L’attore, Vincenzo Crea, porta delle tonalità proprio diverse da come lo avevo immaginato. Nel libro è più piccolo, l’attore invece era un altro tipo di persona ed è risultato diverso anche grazie ad una certa ambiguità e femminilità molto forte che nel romanzo non c’è.
Nella tua vita scrivi e insegni. Attualmente sei impegnato con la promozione del tuo ultimo libro “Così giocano le bestie giovani”, ma che ne sarà del cinema?
Questa è stata un’esperienza bellissima e molto tosta. Ho collaborato alla stesura di questo film perché era il mio libro, ma per ora non ho ulteriori progetti, anche se questa esperienza mi ha un po’ stuzzicato.
Eveline Bentivegna
foto: C. Iannone