Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, di fronte all’imbarbarimento della lotta tra le istituzioni – lotta che può portare ad un terremoto politico dalle conseguenze imprevedibili ma pericolose, anche tenendo conto della particolare crisi economica – ha convocato la stampa al Quirinale ed ha lanciato un monito rivolto alla politica e alla magistratura.
Alla prima ha detto che “nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza in Parlamento”; alla seconda, che “quanti appartengono all’istituzione preposta all’esercizio della giurisdizione si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione”.
Noi siamo convinti che il monito di Napolitano, come tutti gli inviti a usare il buon senso, non sortirà nessun effetto. Da 15 anni a questa parte, da quando l’attuale presidente del Consiglio è entrato in politica scompaginando “la gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, l’odio è il tratto distintivo dei rapporti politici, favorito anche da un bipolarismo che di per sé aiuta alla contrapposizione.
A creare questo clima di imbarbarimento non è stata solo la “vittoria scippata” nel 1994 ma anche la tradizione rivoluzionaria e radicale che si basava e continua a basarsi sull’odio di classe e dunque sul “nemico” politico da abbattere. Da sole, tuttavia, queste motivazioni non bastano. Se guardiamo ai risultati ottenuti contro l’emergenza immondizia in Campania e dopo il terremoto in Abruzzo, si comprende che il “nemico” è ancora più pericoloso perché si mostra all’altezza dei problemi. Di qui lo scontro fino all’inverosimile.
All’indomani della caduta del Lodo Alfano, c’è stato un crescendo di iniziative giudiziarie ai danni del premier: non solo quelle temporaneamente sospese, ma anche quelle archiviate più di 10 anni fa ed ora riprese. Berlusconi è accusato di essere il mandante delle stragi del 1993, di aver stretto rapporti con la mafia, di essere il mandante addirittura dell’attentato a Maurizio Costanzo. Tutto questo sulla base di “confessioni” di un pentito che per dieci anni non sapeva nulla, poi, a scadenze regolari, imbeccato dai pm, capisce che se vuole ottenere sconti e benefici, deve fare quel nome e lo fa, nel giugno del 2009.
Cosa dovrebbe fare il premier? Dimettersi come fece nel 1994 dopo un avviso di garanzia per poi essere assolto “perché il fatto non sussiste” dopo dieci anni?
Potrebbe essere una scelta, se non fosse che sono tanti i magistrati che in convegni e in relazioni hanno palesemente scritto che bisogna “cambiare il corso degli avvenimenti”. Se questa è la giustizia in Italia, lasciamo giudicare ai lettori.
Il premier ha scelto di opporsi a questo potere di parte della magistratura che persegue fini politici. Di qui lo scontro istituzionale e il monito di Napolitano, destinato, pensiamo, a rimanere inascoltato.
Si tratta solo di sapere se fra qualche mese l’attuale maggioranza cadrà in frantumi sotto l’offensiva di una magistratura potente, oppure se l’attuale maggioranza reggerà lo scontro giudiziario-mediatico-politico e allora ci sarà il ridimensionamento dei magistrati militanti che scambiano i tribunali per sezioni di partito.