Anche quest’anno il Premio Nobel per la Pace è stato dato ad un’organizzazione, l’Opac, con sede a L’Aja, in Olanda, che opera nel campo della proibizione delle armi chimiche. Attualmente i suoi funzionari stanno lavorando in Siria, in applicazione degli accordi siglati tra Usa e Russia sotto l’egida dell’Onu per la mappatura e la distruzione delle armi chimiche detenute dal governo siriano.
Non è la prima volta che l’ambìto Premio viene dato non ad una persona che ha operato per la pace, ma ad un’organizzazione, quindi ad un ente impersonale. Ricordiamo che negli anni scorsi toccò all’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), formato da scienziati e da diplomatici di 195 Paesi aderenti all’Onu per le loro ricerche in campo ambientale e climatico. L’anno scorso fu assegnato addirittura all’Unione europea.
Diciamo subito che le critiche per averlo assegnato ad un’organizzazione non sono immeritate. Intanto, il Premio dovrebbe andare ad una o più persone che davvero sono state operatrici di pace, che hanno rischiato la loro vita, che hanno perseverato in un compito estremamente difficile, che ne hanno fatto una ragione di vita e un tratto distintivo del loro impegno a favore dell’umanità. Darlo ad un’organizzazione sa di compromesso, sa di politica, sa d’ambiguità e poi è come dare un Premio per la Medicina non al medico che ha fatto una scoperta ma all’ospedale presso cui lavora.
Ma chi sono le organizzazioni che finora hanno ricevuto il Premio? Cominciamo dall’ultima, l’Opac. Ebbene, non dovrebbe sfuggire a nessuno che si tratta non di volontari, ma di funzionari, che per le loro competenze lavorano, con retribuzione certamente non da fame, al servizio di altre organizzazioni di tipo politico che hanno concordato la mappatura e la distruzione delle armi chimiche in Siria. Ebbene, di funzionari che operano per conto di organizzazioni internazionali, di solito protetti, se ne contano a decine di migliaia, se non a centinaia di migliaia in tutto il mondo. Perché, allora, proprio all’Opac?
L’anno scorso, dicevamo, il Premio è stato assegnato all’Unione europea. Una scelta incomprensibile, non solo perché entità giuridica e politica, ma perché alcuni Paesi membri dell’Ue andarono a fare la guerra in Libia, un atto non proprio di pace. Quanto al Nobel all’Ipcc, i dubbi aumentano. Oggi si sa che le conclusioni del rapporto del 2007 in materia di clima furono il risultato di una clamorosa manipolazione di dati, come è stato riconosciuto da molti scienziati (che anche allora lo dicevano) e come è provato da intercettazioni telefoniche e addirittura da confessioni.
Qualche anno fa il Premio fu assegnato a Barack Obama, addirittura appena dopo la sua elezione. Fu un Premio “preventivo”, come si disse, dato cioè prima che potesse dimostrare di meritarlo. Ora, Obama è una persona di dialogo e di pace, ma anche lui intervenne in Libia e stava per intervenire, suo malgrado, in Siria. Tuttavia, con i limiti appena citati, il Premio ad Obama ci stava, se non altro perché aveva fatto un discorso di dialogo e di pace coraggioso al Cairo. Ma all’Opac e all’Ipcc no, proprio non ci stava.
C’è stata delusione per il mancato Premio alla ragazza pakistana sedicenne, Malala, che ha lottato a 14 anni contro i talebani per andare a scuola, subendo percosse e violenze e salvata per miracolo dalla morte e sottratta alla vendetta, tra l’altro tuttora minacciata. Delusione, sì, ma, tutto sommato, ha già ricevuto in poco tempo prestigiosi riconoscimenti internazionali. Ci sarà sicuramente un’altra occasione, ma un Premio a chi ha 16 anni per quello che ha fatto e per il messaggio a milioni di donne e ragazze in tutto il mondo e specialmente nei Paesi dove c’è persecuzione e chiusura contro le donne, sarebbe stato meritato, eccome.
Siamo sicuri che tra le persone bocciate o nemmeno prese in considerazione c’era senz’altro chi meritava più dell’organizzazione premiata, ma evidentemente non c’erano interessi a sceglierle.