I familiari di “Chico” Forti, condannato all’ergastolo negli Usa dopo un processo durato solo 24 giorni, scrivono al presidente Napolitano
La giustizia in Italia, si sa, fa acqua da tutte le parti: lunga, pasticciona, contraddittoria, approssimativa. Negli altri Paesi non va meglio. O piuttosto: ci sono Paesi economicamente e industrialmente più arretrati dove la giustizia va addirittura peggio, ma ci sono Paesi in cui va meglio: celere, precisa, impeccabile, affidabile. Non in tutti i Paesi avanzati, però. Prendiamo gli Stati Uniti. La giustizia in quelle latitudini sarà anche più veloce ma non è detto che sia più giusta. Se pensiamo che sono tanti i condannati a morte che poi sono risultati innocenti, allora vien da dire che qualcosa non torna. Se pensate all’ultimo caso, quello di un bambino di cinque anni sorpreso a rubare e messo in galera con tanto di ceppi ai polsi, vien da dire che forse sarebbe stato meglio mettere le manette al giudice e alle forze dell’ordine più che a quel bambino. Il quale avrà anche rubato, avrà anche causato danni, avrà anche ferito, avrà fatto tutto quello che volete, ma ha solo cinque anni e un bambino di cinque anni non si arresta, non si mette in prigione, non si ammanetta. Il guaio, appunto, è che negli Usa – che certamente viene dall’epoca del (Far) West, dove ci si ammazzava per nulla – accade che per essere veloce la giustizia prende delle solenni cantonate.
Il caso dunque di cui la stampa si sta occupando in questo periodo – più in sordina nei mesi e negli anni scorsi – riguarda il processo a carico di un cittadino italiano arrestato e incolpato di omicidio e condannato all’ergastolo. Il processo è stato rapidissimo, è durato in tutto 24 giorni, ma si potrebbe dire che oltre che veloce sia stato anche giusto? C’è chi dubita che sia così, anzi, a sentire l’interessato e i suoi familiari, il processo è avvenuto in modo sommario, senza prove e senza nulla.
Il caso riguarda Enrico Forti detto “Chico”, condannato il 15 giugno del 2000. Questa è la motivazione della sentenza: “Per aver personalmente e/o con altre persone allo Stato ancora ignote, agito come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta partecipata, e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamente, la morte di Dale Pike”. Non siamo giuristi, ma non c’è bisogno di esserlo per dire che se uno ha commesso un fatto con altre persone “allo Stato ancora ignote”, qualche dubbio sussiste sull’accertamento della verità dei fatti. Quantomeno i giudici non sono sicuri se a commettere il delitto sia stato Chico o altri o tutti quanti insieme o anche nessuno. In base alle motivazioni della sentenza, Chico Forti, imprenditore trentino, è stato condannato, gli altri no, per la buona ragione logica che non se ne conoscono i nomi. C’è la giustizia ingiusta, c’è la giustizia sommaria, c’è la giustizia superficiale, negli Usa, evidentemente, accanto alla giustizia vera e propria, c’è anche quella “a spizzico”. A commettere un delitto, mettiamo, sono in sei, almeno è ciò che si può ipotizzare, dunque nulla di certo. Ne prendo uno che presumo sia uno dei colpevoli e gli faccio il processo, lo condanno e buona notte. Poi se e quando prendo gli altri, faccio anche a loro il processo e li condanno, magari a distanza di qualche tempo l’uno dall’altro. Non viene in mente che qualcuno dei sei possa sapere la verità e dire, magari, che uno che è stato condannato non ha commesso il fatto? Si vede che negli Usa succede anche questo.
Chico Forti sta rinchiuso da 13 anni in galera senza che abbia commesso il fatto di cui è accusato. E’ quello che grida lui ed è quello che dicono anche i familiari. Uno può anche non credergli, ma l’ergastolano non ci sta e vorrebbe un altro processo, un processo giusto, con tanto di prove, che è il minimo per potere essere condannato all’ergastolo. Non si tratta di un mese, si tratta di una vita, dunque uno vorrebbe essere certo di essere stato condannato a ragion veduta. Invece no, 24 giorni per una verità che ha più punti oscuri che i buchi neri nello spazio infinito.
E’ da tempo che i familiari di Chico Forti hanno sollevato il caso, ma sempre con insuccesso: Chico Forti non è un personaggio politico che fa comodo alla maggioranza o all’opposizione, no, è un uomo comune che grida la sua innocenza e vorrebbe che ci fosse un giudice disposto a riesaminare il caso, chiuso con troppa fretta. Da ultimo lo zio di Chico Forti ha scritto al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che prima della fine del suo mandato, si recherà negli Usa a colloquio-congedo da Obama. Scrive Giovanni Forti: “A Lei, Signor Presidente, affidiamo le nostre speranze che giustizia sia fatta”. E al ministro degli Affari Esteri, Giulio Terzi: “Ci permettiamo di rivolgerci ancora una volta a Lei per chiederLe di porre la questione della riapertura del processo”. I familiari di Chico Forti non chiedono l’assoluzione senza processo, chiedono un giusto processo, che è il minimo che si possa pretendere da una giustizia che si dichiari tale.