Il nuovo Sud dell’Italia è il nuovo film di Pino Esposito, un regista italiano emergente, acuto e sensibile alle problematiche quotidiane che vivono gli immigrati nel sud della nostra terra. È un film fatto di immagini alcune forti e contrastanti, altre evocative come le spiagge calabresi, con cui si apre il film, che “non sono sporche ma sono piene di oggetti che spesso il mare riporta”. Così come spesso lo stesso mare restituisce corpi senza vita: a volte ritornano oggetti, altre volte i corpi inerti di chi non è riuscito a superare la traversata. Così le immagini, i luoghi, le figure che animano questo film esprimono tutta l’inquietudine di un’epoca che non dà certezze ma solo paure per un futuro incerto. A farci forza è la speranza che un giorno il mare della Calabria possa rilasciare sulle spiagge solo vecchi oggetti.
Pino, come scopri la tua passione per l’arte visiva?
Sono calabrese, per la precisione di Rosarno Calabro in provincia di Cosenza. Ho studiato architettura a Firenze poi, seguendo la mia naturale inclinazione artistica, ho lasciato stare architettura, che è qualcosa di molto formale, per seguire dei corsi di arti visive come cinema e teatro in cui avevo maggiore libertà d’espressione. Ho organizzato i primi spettacoli teatrali in Italia e poi qui a Zurigo
Ho cominciato con dei cortometraggi amatoriali ed ho subito notato degli ottimi risultati a livello di pubblico, cosa che mi ha invogliato a continuare per questa strada. Così ho seguito questa mia passione. Dai cortometraggi amatoriali sono passato alle elaborazioni per festival o eventi in cui c’era un pubblico più vasto che spesso mostrava un certo interesse verso i miei lavori! Ho frequentato anche dei corsi per specializzarmi sulle tecniche cinematografiche.
Parlaci de “Il nuovo Sud dell’Italia”
Nei miei lavori ho sempre cercato di spaziare molto e di sperimentare nuovi linguaggi, più personali, e questo film risulta proprio da quei tentativi di sperimentazione tanto che è un film documentaristico ma che vive di quella soggettività e di quella poesia non tipica dei documentari.
Non è un documentario a livello giornalistico, in cui si ricavano delle informazioni su una data situazione. È una forma nuova di fare documentari attraverso le immagini, la poesia e i racconti dei diretti interessati.
Ho cercato di far capire attraverso le immagini e attraverso il testo ma in realtà niente è definito, tutto è lasciato molto aperto in modo che lo spettatore possa avere una percezione propria del messaggio che si ricava dalle immagini.
È un film che si fa nello schermo e fuori dallo schermo, nelle platee in cui gli spettatori partecipano attivamente al suo farsi costruendosi un parere, un giudizio, delle percezioni proprie.
È per questo che spesso alla proiezione del film segue un dibattito molto attivo dove ognuno può esprimere le sensazioni che ne ha ricavato dalla visione.
Sì, infatti non è un film lineare e cronologico. A me preme soprattutto che ognuno, attraverso la propria percezione e la risonanza delle immagini, possa trarre delle conclusioni proprie.
Il film vive di forti contrasti così come c’è l’inquietudine della figura e dell’immagine c’è poi la pace della poesia e la bellezza della letteratura che ti rasserena.
Hanno scritto che il film è “silenzioso e rumoroso, che ti impaurisce ma nello stesso tempo ti dà fiducia”. Sono dei contrasti che io ho cercato, perché all’inquietudine segua anche un senso di speranza. Le immagini, infatti, sono molto forti perché rivelano tutta la rabbia e un forte senso di solitudine ma non si fermano lì, si risolvono nel senso di speranza che ti lascia il film.
Come nasce l’idea di questo film.
Io sono un immigrato svizzero per cui ho vissuto in prima persona sulla mia pelle il problema dell’immigrazione. Per questo volevo fare un film che parlasse di persone reali che hanno vissuto questa esperienza. A Zurigo ho incontrato il fotografo Antonio Murgeri con il quale mi sono trovato d’accordo su molte idee. Nelle sue fotografie vi è lo stesso interesse al fenomeno dell’immigrazione che ho svolto io con le mie pellicole: lui da emigrato italiano è tornato a Napoli, nel suo paese d’origine, per fotografare la situazione degli immigrati a Napoli ed io, calabrese, invece sono tornato a Rosarno per indagare sulla situazione attuale. Ho condiviso la sua idea di contrasti e mi è piaciuto questo parallelismo che andava bene per il film che avevo intenzione di fare, che parlasse di gente reale che vive da vicino la condizione di immigrato.Avevo preparato la sceneggiatura qui in Svizzera e con questa idea iniziale sono sceso in Calabria dove sono rimasto per tre mesi. Sono stato aiutato da alcuni amici che mi hanno indirizzato verso persone che potevano tornare utili al mio film tra le quali il giornalista Piervincenzo Canale, che mi ha aiutato tantissimo con le sue interviste, i suoi filmati, vivendo a stretto contatto con questi immigrati. È grazie al suo lavoro sul campo che si deve l’attualità del film che riporta episodi di cronaca avvenuti in questi tempi. Poi ho trovato l’appoggio di Angelo Tinari che per primo ha visto il film e per primo ci ha creduto, contribuendo alla distribuzione e diffusione de “Il nuovo Sud dell’Italia”.
Perché “nuovo Sud”?
Semplicemente perché si sta delineando una nuova faccia del sud che prima era terra di emigrazione ed invece adesso sta diventando terra di immigrazione in cui si concentrano le masse, in cui si accolgono queste persone con i pochi mezzi che si hanno a disposizione, che risultano comunque inadeguati ad affrontare la situazione.
Si può affiancare il concetto di inquietudine a quello di emigrazione?
Ognuno di noi vive momenti di inquietudine fatta di grandi momenti di solitudine, in cui ti mancano i tuoi cari, la tua lingua e ti senti solo e triste. La solitudine è alla base di questi momenti di inquietudine ma i momenti di solitudine sono vissuti da tutti, non solo dall’immigrato ed infatti il senso di inquietudine che si avverte nel film è in senso più ampio riferito ad una certa insicurezza verso il futuro che ci pare decadente, come tutte quelle barche distrutte accatastate l’una sull’altra. Il mio non si può definire un film chiaro, sicuramente a vederlo non si capisce perché io abbia voluto far vedere tutti quegli oggetti, quei tronchi sulla spiaggia. Ecco, a livello artistico, per me questi rappresentano i corpi delle persone restituite dal mare.
Lo spettatore si rivede nei protagonisti?
L’interpretazione del film è molto personale e dipende molto dalla percezione che ne fa ognuno di noi, in base alle proprie esperienze. Per questo non ho voluto fare un film lineare e cronologico in cui la drammaturgia, uguale per tutti, potesse influenzare il pubblico.
Io sto ricevendo tantissime mail e tantissimi ringraziamenti da parte di persone che hanno recepito in maniera diversa il film. Ed è proprio questo quello che volevo io: l’incontro di queste percezioni diverse.
Cosa ti piacerebbe realizzare con questo film?
A me piacerebbe riuscire a dare maggiore visibilità a questi ragazzi che però purtroppo adesso sono spariti. Ma con loro è così, perché oggi ci sono e domani non ci sono più e questo è dovuto anche alle leggi che si stanno realizzando contro la loro integrazione. Tornando al film, sono molto soddisfatto di come stanno andando le cose, del successo iniziale, quando il film è stato proiettato per la prima volta al festival dove non mi aspettavo una così grande partecipazione di pubblico, e dell’interesse del cinema che dopo averlo visto ha voluto averlo nel programma. Prima faceva un solo turno, adesso ne ha programmati due e per la prossima proiezione è stato addiruttura destinato ad una sala più grande. Anche la stampa svizzera sta mostrando il suo interesse, pubblicando diversi articoli sul film. Come ho già detto, alla proiezione segue solitamente un dibattito: ciò si ripeterà domenica prossima (21 marzo alle 11:45, sala 1, cinema Riffraff) quando si svolgerà anche una spaghettata antirazzista presso il Punto d’Incontro di Zurigo.
Eveline Bentivegna