E così, di taberna in taberna, per cauponae e mansiones, di villa in villa, senza fermarsi più di poche ore, Costantino percorse le pendenze del Danubio e gli avvallamenti del Reno, cavalcando su su, fino a Colonia Agrippina, dove virò in direzione di Gessoriacum. E solo là, veramente costretto a fermarsi, in attesa dell’imbarcazione che sarebbe salpata l’indomani presto, poté permettersi un pernottamento all’osteria. Non prima, però, di ispezionare quel porto che sembrava possedere tutte le condizioni per consentire alle imbarcazioni l’approdo, l’ormeggio e la protezione dal mare. Là sostò fino al tramonto, osservando il carico delle merci che precedeva quello delle persone; e impressionato dal frenetico dinamismo, tanto diverso da quello dei semplici scali dislocati sul percorso fluviale, nelle vicinanze di città poste sul retroterra per ragioni di difesa.
Il porto di Gessoriacum, invece, a dimostrazione della sua funzione e della sua nomea, presentava tutte le attrezzatura di un grande snodo e di un enorme emporio. Considerò quante volte ne aveva inteso parlare, allorché il padre proprio là attendeva la costruzione della flotta che gli avrebbe consentito di andare a domare la rivolta in Britannia. Anche se ora rifletté su quanto la verifica della realtà dissolvesse il miraggio della fantasia, per tradurlo d’un colpo più prosaici e ordinari scenari, rispetto alle favolose parvenze prive di spazio e di tempo; e quanto, malgrado la sua geometrica estensione, il paesaggio si restringesse alla prova dei sensi. Troppo a lungo aveva visionato quel luogo, quando accompagnava con la mente Costanzo impaziente di imbarcarsi; mentre ora Gessoriacum, nella sua concretezza, gli sembrava solo un efficiente porto di scambio, complesso e dinamico, ma ben squallido al confronto dell’arsenale del pensiero!
Trascinato dal suo spirito curioso di tutto intendere e capire, mentre si spostava lungo il porto, Costantino ammirava come le manovalanze avevano risolto i problemi posti dal luogo: siccome a Gessoriacum di certo non era presente la pozzolana, e avevano dovuto ricorrere a impasti di calce e sabbia, gettati tra pareti con doppia paratia, ingabbiate da paletti che l’ancoravano al fondo, per contenere le spinte dell’acqua.
Come che fosse, Gessoriacum possedeva però tutte le strutture di un grande porto; e Costantino, per accertarsene, scese sul molo, che si protendeva verso lo specchio del mare. Percorse la rada prospiciente all’acqua, che permetteva alle navi di accostare, per l’imbarco e lo sbarco, al riparo del moto ondoso. E da lì poté riconoscere, non senza un fremito, la bireme che l’indomani presto sarebbe salpata per la Britannia. Si mosse quindi lungo la panchina, intersecando gente diversa e pittoresca; guardò gli ormeggi pigri nell’acqua, da dove sembravano non doversi staccare mai; e ammirò tutta la competenza tecnica degli ingegneri, che avevano saputo superare le asperità della natura; e si sentì fiero di appartenere a quella civiltà di costruttori e edificatori, che sapevano riutilizzare tutte le tecniche portuali, per realizzare solide dighe.
Il porto che percorreva instancabilmente, in effetti, disponeva da un lato i bacini, dove, attraverso il mare limpido e quieto, si intravvedeva una doppia fila di pilastri compatti di mattoni e tufo amalgamati nel cementizio e collegati da arcate. Alla fine del molo un imponente faro si ergeva a segnalare per molte miglia la presenza di un ostacolo o l’approdo. Ritornò quindi verso l’emporium, costituito da magazzini per lo stoccaggio: dove il flusso dei mercanti, e l’andare e venire delle taverne, sul mare aperto, era appena protetto contro il vento di scirocco; e dove un viavai convulso riversava gente di ogni qualità, con quell’eccitazione che precede la partenza. E facendo attenzione, ora più che mai, a celare qualsiasi traccia d’identità o di provenienza che potesse destare sospetti, si mescolò alla folla che gremiva il porto, assaporando l’intima soddisfazione di immaginare che nessuno poteva neanche lontanamente sospettare, in quel brulichio anonimo, la presenza di chi si apprestava a cambiare la Storia.
C’era di tutto. Marinai che lì avrebbero trascorso la notte; ladri, biscazzieri, plebaglia; nonché soldati che raggiungevano il reggimento sull’altra sponda della Manica, e tra i quali avrebbe anche potuto sentirsi al sicuro, ma che per prudenza preferì evitare. Scese quindi in una bettola, dove la confusione avrebbe meglio assicurato l’anonimato, e poté assistervi alla vita della sera, mescolato ai giocatori che ingannavano l’attesa gozzovigliando rumorosamente; abbuffandosi di carne grigliata, che innaffiavano con generose dosi di vino; o dileguandosi aggrappati a donne di conio, con cui sperperare qualche soldo.
Molti altri si intestardivano in una seria gara d’azzardo, di per sé illegale, per la quale si prevedeva una contravvenzione d’importo pari a quattro volta la posta; ma che non sembrava affatto scoraggiare le puntate: tanto che molte locande, oltre a quella in cui si era inoltrato, erano attrezzate con bische clandestine e tavoli da gioco nel retrobottega. Il proprietario del locale, del resto, non rischiava niente, anche se non poteva chiedere risarcimento in caso di danni provocati dai clienti; e i debiti di gioco non avevano riconoscimento giuridico. Seduto in un angolo, riflessivo su quegli scampoli di vita ruvida e semplice nella sua brutalità, Costantino osservava, e considerava che il fascino dell’alea non aveva risparmiato nemmeno Claudio, l’imperatore uso a dilapidare beni in scommesse colossali coi dadi, di cui era grande esperto, e su cui aveva composto persino un trattato.
La taverna era gremita ormai di avventori d’ogni tipo e classe sociale, che mescolavano le loro voci, alterandole a suppliche e bestemmie, tra un vociare impastato di sapori e di fumo. E in un amalgama di lingue e fisionomie, etnie e figure, ognuno gridava come poteva l’euforia dei confini, davanti alla notte che presto li avrebbe inghiottiti per trasportarli l’indomani oltre il mare, in un abbandono al sonno liberatore dopo una tempesta sessuale. Altri si dannavano a gettare sul tavolo cubi d’osso o di bronzo, con valori incisi sulle facce da 1 a 6. Altri ancora, credendosi al riparo dagli imbrogli, voltolavano bussolotti sul nome di Venere e Diana, o su quello più intimo dell’amata lontana. Due goffi giocatori erano immersi nel ludus latrunculorum, accaniti a muovere ciottoli su un campo a scacchiera. Altri ancora scrutavano un tracciato da tre colonne di dodici caselle, con l’intermedia usata per il passaggio delle pedine, che dovevano condurre in senso antiorario dalla postazione più in alto a destra a quella più in basso a sinistra, sempre con l’ausilio dei dadi. E se la sorte li sbarcava su una casella occupata, ne espellevano il rivale, rimandandolo a fare il percorso daccapo; oppure, in malo modo, l’invitavano con l’occhio a considerare la scritta laterale, che inesorabilmente, tecnicamente, ricordava al perdente che era ora di andare: Victus lebate, luder nescis. Daluso rilocum. Ovvero: “Perdente, alzati! Non sai giocare! Fai posto a un vero giocatore!”
E allora Costantino, dopo qualche segnale della testa ciondolante, sconfitto finalmente dalla lunga fatica, sentì che era tempo di concedersi anche lui qualche ora di sonno.