La lettera del governo italiano all’Europa ottiene l’“apprezzamento” dell’Eu ma anche l’invito perentorio a far seguire i fatti alle parole
Secondo i sondaggi – che, in bene o in male, hanno più valore psicologico che reale – il Pdl è in recupero negli ultimi dieci giorni e il Pd accusa qualche difficoltà. Difficile dire se la realtà sia quella descritta dai sondaggi, specie se si tratta di “intenzioni di voto”, però è vero che il dibattito politico riflette questo stato d’animo. Berlusconi è uscito dall’angolo, dicono i suoi più stretti collaboratori, e il motivo sarebbe la lettera del governo italiano all’Europa e l’apprezzamento espresso dall’Ue sulle misure che il governo italiano intende approvare per dare una spinta alla crescita economica. Il premier, infatti, dopo il “via” europeo, si mostra fiducioso e ripete in ogni occasione alcuni concetti. Il primo è che lui ci ha messo la faccia e il suo futuro; il secondo è che nella lettera sono indicate misure e scadenze, quindi non una lettera d’intenti generica, ma una lettera impegnativa di fronte alla comunità internazionale che non ammetterà un’altra opportunità; il terzo è il suo appello alle opposizioni affinché ci si occupi tutti del bene dell’Italia. Le ultime dichiarazioni del premier riguardano la sua volontà a fare presto e a investire il Parlamento sul rispetto del percorso indicato. Ci è parso di capire che è intenzionato ad andare avanti anche a costo di porre un’ennesima fiducia. Insomma, o riuscirà a rispettare impegni e misure oppure cadrà perché la fiducia gli sarà tolta su un programma serio e “ambizioso”. Un primo segnale l’ha avuto dalla fronda interna, capeggiata da Scajola (Camera) e da Pisanu (Senato): la lettera anonima che è arrivata alla stampa e nella quale si chiedeva al premier un passo indietro (dimissioni) per coinvolgere l’Udc in un nuovo governo del centrodestra e portare avanti con una maggioranza più ampia e sicura il programma approvato dall’Europa, è stata smentita dagli stessi interessati. La fronda interna, insomma, di fronte alla svolta (misure precise e ambiziose e assunzione delle responsabilità in prima persona, senza essere condizionato da Tremonti), se non proprio rientrata, sarebbe stata messa in condizioni da non poter alzare la voce, pena lo sfilacciamento di tutto il centrodestra. Il secondo segnale l’avrebbe ricevuto da Bossi, il quale pare deciso ad appoggiare il governo fino alla scadenza naturale della legislatura (primavera 2013) e a fare tutte le riforme possibili, compreso il completamento del federalismo. Dopo il sì di Bossi, infatti, Berlusconi ha lanciato un avvertimento alle opposizioni, dicendo in sostanza che è inutile chiedere le sue dimissioni visto che la maggioranza c’è e tiene. Ecco, questo è il vero nodo: terrà per davvero di fronte agli urti provenienti non solo dalle opposizioni politiche ma anche da quelle sindacali, con una serie di scioperi che ci saranno in questo autunno? Non lo possiamo dire, ovviamente, perché con un’alleanza Pdl-Lega non disposta a nessun governo tecnico i parlamentari della maggioranza tentano di far quadrato per non andare alle elezioni anticipate e rischiare di non essere rieletti, dall’altra, con numeri risicati, un incidente è sempre possibile. Le opposizioni, per non essere accusate di disfattismo e per acquisire credibilità in Italia e anche in Europa, avrebbero tutto l’interesse a confrontarsi con la maggioranza e assicurare l’approvazione delle misure per uscire dalla crisi e per rilanciare l’economia. Sarebbe un vantaggio di tutti, anche perché una volta vinte le elezioni, in assenza di riforme fatte, si troverebbero nelle stesse condizioni – se non peggiori – per uscire dalla crisi. Finora le opposizioni hanno accusato Berlusconi di non aver fatto le riforme. In parte l’accusa è vera, ma in parte no. Nel 2002 il premier propose una deroga all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, una deroga di tre anni per innalzare il numero dei dipendenti (oltre i 15) per non essere considerata piccola impresa e quindi di godere dei vantaggi connessi. Berlusconi pensava di aiutare le imprese ad assumere più personale mentre con i vincoli più rigidi non era possibile. Ebbene, ad opporsi furono la sinistra di allora e i sindacati con manifestazioni oceaniche a Roma. Nel 2005 fu approvata la riforma istituzionale, che tra l’altro prevedeva il Senato delle Regioni e la diminuzione del numero dei parlamentari. Contro questa legge già approvata la sinistra promosse un referendum che spazzò via la riforma. Assumere ancora una volta un atteggiamento di chiusura di fronte alle misure per la crescita sarebbe un’ennesima prova di chiedere una cosa e di rifiutarla subito dopo averla ottenuta, solo perché a proporla è stato l’“odiato” nemico Berlusconi. Nemmeno la sinistra può permettersi di giocare sempre allo sfascio, tanto più che all’interno del Pd esiste una divisione difficilmente superabile tra Bersani e l’ala di sinistra e il sindaco Renzi, esponente giovane dell’ala riformista, che si ritiene “rottamatore” della vecchia tradizione postcomunista del Pd. A Bersani conviene andare alle elezioni perché spera di essere lui il candidato del centrosinistra, gli altri vogliono una sinistra riformista non eternamente demonizzatrice dell’avversario. Non è detto, comunque, che le proposte per la crescita non trovino sostenitori anche nel Pd, in nome della responsabilità, il che spariglierebbe ancora una volta le carte. [email protected]