Manifesto in cinque punti della Confindustria che chiede provvedimenti per la crescita. A metà ottobre arriveranno in Parlamento le leggi costituzionali per le liberalizzazioni e l’architettura istituzionale
Chi legge i giornali italiani di questi giorni, anzi, di questo periodo, assiste a un crescendo di polemiche e di confusione, tutte, o quasi, montate ad arte proprio da chi è corresponsabile di ciò che si imputa al governo di non aver fatto o di non fare. Approvate due manovre per tenere sotto controllo i conti pubblici e per raggiungere nel 2013 il pareggio di bilancio, che sarà iscritto nella Costituzione, il governo sta lavorando a un decreto sulla crescita e sullo sviluppo che sarà presentato verso metà di ottobre, per dare fiato all’economia e rimettere in movimento lavoro e occupazione. Ci sono tempi da rispettare, soprattutto quando si tratta di leggi costituzionali, come quella sulle liberalizzazioni, sull’abolizione delle province e sul dimezzamento dei parlamentari, collegata alla riforma costituzionale del Senato delle Regioni. Dicevamo che si sta assistendo a polemiche da caduta dell’Impero romano. Protesta la Confindustria, lanciando un manifesto in 5 punti su cosa dovrebbe fare il governo urgentemente per la crescita e non s’accorge che tra le piccole e medie imprese s’annida la fetta più grande di evasione fiscale e si trovano proprio coloro che in passato hanno ricevuto finanziamenti a fondo perduto o percepito e utilizzato per altri fini, diversi da quelli per i quali li avevano ottenuti. Confindustria chiede da subito l’eliminazione delle pensioni di anzianità, tutti in pensione a 65 anni e da subito in vigore gli aumenti collegati all’aumento dell’aspettativa di vita. Insomma, chiede ciò che non solo il governo non è in grado di dare, ma ciò contro cui si scagliano sindacati e partiti di sinistra. Confindustria, inoltre, chiede una patrimoniale dell’1,5 per mille su patrimoni eccedenti un milione e mezzo di euro. Fin qui, va bene, ma poi chiede nuove tasse per la massa dei cittadini, in pratica quella sulla casa, tolta all’inizio di questa legislatura. Protestano le opposizioni, che, si stenta a crederlo, chiedono a gran voce che si rimetta in moto l’economia con una serie di infrastrutture, dimenticando però almeno due particolari. Il primo è che esse sono state finanziate con il via libera da parte del Cipe già varie settimane fa (in Italia la burocrazia va più lentamente delle lumache), il secondo è che proprio la sinistra, appena insediatasi al governo nel 2006, le grandi opere come il Ponte sullo Stretto le ha bloccate perché le riteneva non prioritarie o addirittura inutili. La lobby dei Verdi al governo si era opposta anche al Mose di Venezia e alla Tav, esattamente come si è opposta agli inceneritori e ai termovalorizzatori. Insomma, il paradosso è che a gridare che tutto va male sono proprio coloro che il male lo hanno in buona parte creato e di cui sono, dati e fatti alla mano, i responsabili. Sia gli uni, la sinistra, che gli altri, gli industriali, poi, dimenticano alcuni piccoli ma significativi dati. Primo: la disoccupazione in Italia sta, seppure leggermente, calando (dati della settimana scorsa). E questo è un fatto positivo su cui stranamente si tace. Secondo: il 19% in meno rispetto al 2010 non è andato in pensione, segno che si rimane già più a lungo nel mondo del lavoro e che la riforma fatta comincia a dare i suoi frutti. Questi dati positivi sono sottaciuti esattamente come nel 2006 si gridava allo sfascio, poi, appena il giorno dopo le elezioni vinte dal centrosinistra, comparvero sulla stampa notizie di miglioramenti dell’economia (come dire: o i miglioramenti prodotti dall’allora governo erano stati sottaciuti o dovevano essere attribuiti alla nuova maggioranza, come se questa li avesse prodotti nella notte tra le elezioni e i risultati). Ci sarebbe da parlare del ruolo della Magistratura che in Italia, al posto di perseguire violenti e delinquenti che mettono a ferro e fuoco quartieri di città (da ultimo Torino in testa, governata dalla sinistra da decenni), preferisce occuparsi con chi mangia e dorme il presidente del Consiglio, calpestando la legge sulla privacy, quella sulle intercettazioni, e anche i diritti della difesa bloccando testimoni della difesa che potrebbero mettere in crisi teoremi e voglia di manette, tanto invocate sugli avversari quanto allontanate quando si tratta di amici. Ma evitiamo di farlo per dire qualche parola sulla legge elettorale, a giudizio della sinistra e di oltre un milione di persone, da bocciare perché toglierebbe al cittadino il diritto di scegliere i loro candidati. È vero? Forse che in passato le liste dei partiti le sceglievano gli elettori? Forse che quando c’erano più preferenze non dilagava la corruzione (chi aveva più soldi aveva più chance), il voto di scambio e il voto mafioso? Forse che non c’era allora e non c’è adesso la libertà di passare da uno schieramento all’altro senza dover chiedere il permesso? La verità è che in Italia si vuole ritornare a quando prima si facevano le elezioni e poi si sceglieva il governo e il suo capo e si disfacevano l’uno e l’altro in base al potere di veto dei piccoli partiti, per cui i governi in media duravano 8-9 mesi. A nostro avviso, l’attuale legge andrebbe mantenuta nella sua impalcatura e modificata su un solo punto: se proprio si vuole introdurre la preferenza, che se ne possa indicare una sola, ma che si salvaguardi il bipolarismo e il proporzionale, cioè la vittoria di chi ha anche un solo voto in più dell’altra coalizione. Altrimenti si ritorna ad un passato che nemmeno una buona parte del Pd vuole.