Un viso scarno. Quasi emaciato. Velato da una profonda tristezza. Le labbra che si muovono impercettibilmente al suono di una voce che sale dal profondo dell’animo. Le mani immobili. Le dita tra loro intrecciate, quasi a trattenere il suo dire perché non sia disperso nel mare dell’oblio. E quegli occhi, indaganti e tenebrosi, che sembrano implorazioni e ricerca di un assenso, di un sì. Un incoraggiamento a proseguire verso l’ignoto futuro che lo attende. Il cranio poi, velato da quel cuoio capelluto che sembrami sbiancare persino nel corso del suo dire, e sovrasta le orecchie a sventola quasi fossero alla ricerca dell’ antenna amica che capta i suoni, le aspettative e le angosce del mondo..
Così è apparso a me il presidente Barack Obama nel corso del suo ultimo saluto al congresso. Un bilancio sullo stato dell’Unione e forse, in tanta parte del suo discorso, degli otto anni in cui ha retto le sorti della grande democrazia imperiale americana. Lo ascoltavano i rappresentanti della sola – in attesa della Cina – potenza planetaria rimasta nell’era del mondo globale. E lassù, sulle tribune, l’adorata compagna della sua vita, accanto alle figlie frutto del loro amore. Tutte nere, di un nero frutto di una mélange, come usa dirsi nella Parigi dell’ arrondissement popolare.
La mélange dai colori del solleone e sin dai tempi in cui gli antenati della sua terra africana furono imbarcati sulle negriere nel viaggio oceanico verso un destino di oppressione e schiavitù. E d’altronde, Obama, figlio di un economista keniota e di un’ antropologa del Kansas, bianca di un biancore lunare, come usava raccontare lui, ricordando aneddoti della sua esperienza giovanile a Chicago, nello scacco matto al Re per le sfide che la vita ti impone scelse sempre il nero come simbolo di riscatto e vittoria sulle forze della violenza e del male. Sull’ arrampicata verso le vette della gloria caddero, progressivamente, i muri eretti a contrastargli il cammino. Nell’Illinois prima e a Washington poi, nella disfida fatale all’algida Hillary a cui concesse, in seguito, l’onore delle armi chiamandola a reggere la segreteria di stato e la politica estera degli Stati Uniti.
Eppure, in quel saluto al congresso, preparato con la scenografia delle grandi occasioni, Barack Obama è apparso solo. Forse fiero, sì, di aver indicato al mondo una nuova strada sin dal quel 4 giugno 2009 all’università del Cairo, in cui espresse la convinzione, sincera e profonda, dell’ ineluttabilità dell’incontro e della convivenza tra le culture millenarie del pianeta nel nome della fratellanza e della democrazia universali.
Solo nell’assistere al crollo dei castelli di sabbia su cui sventolava la bandiera a stelle e strisce del soldato americano al ritorno dalle terre insanguinate dell’Iraq e dell’Afghanistan. Non è tornato, il soldato, se non qualche suo compagno racchiuso nella solita bara coperta dal drappo a stelle e strisce perché sia poi riavvolto e consegnato ai suoi cari a imperituro ricordo dell’eroe caduto per la patria. Già: non è tornato.
E chissà quanti verranno rinviati per combattere il mostro tentacolare dell’Isis diretto dai califfi saliti dall’abisso a portare il seme della violenza: nel medio oriente siriano e iracheno e nel continente africano. E mentre lui parlava, ricordando il martirio parigino del Bataclan – mentre scrivo, in Burkina Faso – altre centinaia di vittime cadevano colpite dal dardo omicida dell’odio religioso e razziale. È apparso solo, il presidente triste, a cui – chissà?- nel suo dire al congresso gli sono apparse le contrapposte visioni di due esodi epocali: dei suoi antenati dal continente nero verso le terre del nuovo mondo e dei milioni in marcia dall’Anatolia verso le coste dell’egeo alla ricerca della terra promessa.
Tanti esodi, una speranza che sa di antico. È il destino dell’uomo da che mondo è mondo: vivere, cercare, amare, odiare, convivere o avversare, rifiutare l’altro che incontri sul tuo cammino. Solo, nel sogno che apprese dalla bocca di un visionario dal suo stesso colore, Martin Luther King, e sin dalla sua prima infanzia. Non essere troppo triste, caro presidente, anche se dietro le spalle sentirai il bisbiglio ingiurioso e l’accusa di fallimento. In fondo, è sempre stato così: nulla di grande si avvera nel tempo reale del protagonista. Ammainata la bandiera, vi sarà sempre qualcuno pronto ad alzarla per vivere un nuovo sogno. Buona fortuna a te, caro presidente, pellegrino del nulla.
I have a dream.
E tutto ricominciò: per una nuova sfida di convivenza e civiltà