L’aumento delle temperature influisce anche sulle economie urbane
In un articolo pubblicato su Nature Climate Change un gruppo di economisti provenienti da Messico, Gran Bretagna e Paesi Bassi si occupa di quantificare l’impatto potenzialmente devastante che potrebbe avere il mix di riscaldamento globale e locale sulle economie urbane. Se l’implementazione dell’accordo di Parigi dovesse fallire e le emissioni continuassero a salire, nel 2100 ci ritroveremmo città più calde anche di 8 °C. L’aumento non è imputabile esclusivamente al riscaldamento globale, ma anche all’effetto “isola di calore”, che si verifica quando parchi, dighe e laghi, che tra le altre cose raffreddano l’aria ad essi circostante, vengono sostituiti da cemento e asfalto.
A questo va aggiunta anche l’energia termica emessa, per esempio, da auto e impianti di condizionamento che contribuisce ad innalzare ancora il riscaldamento globale nei centri urbani. Rimpiazzare aree verdi e specchi d’acqua con altre costruzioni peggiora la qualità della vita urbana, contribuendo ad aumentare le temperature locali. Le città coprono appena l’1% della superficie terrestre, ma producono circa l’80% del pil mondiale e consumano il 78% dell’energia. Secondo questo studio il riscaldamento globale in atto farà sì che il Prodotto interno lordo dell’intero pianeta entro la fine del secolo sia inferiore del 10% annuo rispetto a quello che potrebbe essere senza gli sconvolgimenti climatici. I ricercatori hanno preso in esame i dati relativi a 1.692 grandi città del mondo, raccolti nel periodo 1950-2015, arrivando a stimare che il prezzo che pagheranno per i cambiamenti climatici sarà 2,6 volte più alto del previsto. In media, una città rischia di perdere tra l’1,4% e l’1,7% del pil all’anno entro il 2050, e tra il 2,3% e il 5,6% entro il 2100. Nei casi peggiori, il Pil delle città potrebbe calare del 10,9% entro la fine del secolo, contro il 5,6% previsto come media globale: diverse le ragioni, che vanno dall’incremento dei costi dell’energia all’inquinamento, fino al calo di produttività dei lavoratori. L’allarme è talmente grave che anche gli economisti stanno cominciando a riflettere sulle conseguenze che i cambiamenti climatici potrebbero avere sulle economie dei paesi più sviluppati e a mettere in correlazione il riscaldamento globale con perdite di posti di lavoro, recessioni e persino cadute dei mercati azionari.
Un aumento della temperatura rischierebbe di interrompere la produttività con la perdita di milioni di posti di lavoro e un crollo del mercato azionario. Inoltre, se si avverasse la previsione di un aumento della temperatura di circa 8 °C entro il 2100, si potrebbe avere una riduzione della produttività e una depressione pari o addirittura peggiore della devastazione del 1930, che portò alla bancarotta gran parte degli USA. La maggior parte delle ricerche sull’impatto economico del cambiamento climatico aveva finora esaminato solo eventi catastrofici quali tempeste o siccità. Ora gli economisti hanno iniziato a studiare anche le lievi ma costanti variazioni di temperatura. Si è così scoperto che i lavoratori sono notevolmente meno produttivi quando sono sottoposti ad uno “stress termico” (ovvero temperature notevolmente più calde o più fredde rispetto alla media). Questo nonostante la possibilità di utilizzare strumenti di riscaldamento e di condizionamento dell’aria. Le temperature più elevate rispetto alla media aumentano il tasso di mortalità, ostacolano la crescita nei paesi in via di sviluppo e spingono le imprese a produrre in Paesi lontani dai climi caldi.
Per ogni aumento di temperatura di 1°C in regioni calde, la produttività cala del 3- 4%. Secondo i ricercatori il problema si può arginare: accanto alle strategie globali di lotta al riscaldamento si devono però utilizzare politiche locali per ridurre il surriscaldamento urbano, come ad esempio incrementare il verde urbano, utilizzare materiali per tetti e marciapiedi che non accumulino tutto questo calore o installare pavimentazioni e coperture dei tetti che riflettano più luce e assorbano meno calore.