Dai trionfi del 2009 all’indomani della conquista della Casa Bianca alle delusioni per i quattro ultimi anni di sostanziale disinteresse verso il continente nero
La settimana scorsa l’Africa è stata sotto i riflettori delle tv internazionali. Non l’Africa del Nord, cioè la Libia caduta preda di una guerra civile che la sta sfiancando, non l’Africa del Nord-Est, l’Egitto, che dopo la primavera araba ha cominciato a contestare il presidente Morsi accusandolo di dittatura prima ed ora di incapacità di fronteggiare una crisi economica destinata a sconvolgere il Paese, ma l’Africa intesa come continente. Cosa mai sta succedendo per essere sotto i riflettori internazionali? Sta succedendo che l’uomo simbolo del riscatto dei neri, Nelson Mandela, è grave, e tutta l’Africa nera si sta stringendo attorno al suo eroe, colui che rimarrà nella storia come la vittima dell’apartheid che ha passato quasi trent’anni della sua vita in galera e che poi quando è uscito ha invocato la non violenza, cosa che aveva fatto anche prima. Nelson Mandela è un uomo la cui memoria e il cui esempio rimarrà nella storia e la sua fama sfiderà i secoli.
Negli stessi giorni, un altro nero, origini ghanesi, rimetterà piede in Africa, dopo un viaggio trionfale di due giorni nel 2009: quel Barack Obama che, primo nero americano ad essere eletto presidente degli Stati Uniti, venne a fare un bagno di folla nel suo Paese d’origine per parte di padre, portando con sé l’esempio di un uomo che, nato da padre ghanese e da madre statunitense, era riuscito nientemeno che ad arrivare alla Casa Bianca, all’apice del potere mondiale,
La coincidenza del tramonto di Nelson Mandela e del viaggio – questa volta di una settimana – di Barack Obama fa impallidire quest’ultimo per una serie di motivi. Il primo è che Obama, dopo quel discorso davanti a milioni di persone presenti fisicamente o che lo applaudivano davanti a uno schermo televisivo, non si è fatto più vedere in Africa e gli africani si sentono traditi da quell’abbandono. Il secondo è che prima gli africani avevano un’idea degli americani, un’idea tutta di forza militare e di dominio, poi che quell’idea è rimasta identica malgrado Obama. Insomma, non gli hanno perdonato di aver abbandonato l’Africa. Il terzo motivo, direttamente legato ai primi due, è che dietro quello slogan “Yes we can” non c’era nulla, almeno per i popoli africani. Il quarto motivo è che mentre Obama in questi ultimi quattro anni si è disinteressato dell’Africa, qualcuno non solo non l’ha dimenticata, ma ne ha fatto un enorme campo di affari per sé e indirettamente per gli africani stessi: la Cina, il colosso orientale con un miliardo e quasi quattrocento milioni di abitanti, che ha spostato i suoi interessi in un continente dove vivono un miliardo e duecentomilioni di persone. Due enormi riserve di risorse, di consumi, di sete di benessere e voglia di vivere.
Allora Obama disse: “Il destino di questo secolo dipenderà non soltanto da quello che accadrà a Roma, a Mosca o a Washington, ma da quello che avverrà qui, in Africa”. Oggi Obama si è fatto precedere da questo giudizio che Ben Rhodes, vice consigliere per la sicurezza nazionale, ha consegnato al Wall Street Journal: “Francamente, questa regione è stata sottorappresentata nei nostri viaggi”. E’ difficile recuperare il tempo perduto, anche perché, come detto, i cinesi il tempo l’hanno impiegato bene.
Il viaggio di Obama è cominciato in Senegal e vi è rimasto il 26 e il 27 giugno, visitando l’isola di Gorée, luogo simbolo della tratta degli schiavi; è proseguito il 28-30 giugno in Sudafrica, visitando Robben Island, dove Mandela ha passato 18 dei suoi 27 anni di carcere. Anche questo è un luogo simbolo, ma rischia di essere soffocato dalla condizione di salute di Nelson Mandela, a cui guarda tutta l’anima nera dell’Africa. Il primo e due luglio Obama è stato in Tanzania, dove la protagonista è stata Michelle Obama, che ha partecipato al Summit delle first Ladies africane di Dar es Salaam.
Obama dovrà sudare molto per recuperare il feeling perduto con la sua terra d’origine, e dovrà davvero sudare le proverbiali sette camicie visto che in Tanzania negli stessi giorni oltre ad Obama c’era anche George W. Bush e sua moglie Laura, impegnati in un vasto programma di beneficenza, e molto più quotato di lui in termini di favori popolari, malgrado la sua fama di guerrafondaio.