Se nel 1989 in piazza Tienanmen i dirigenti di allora della Cina avessero potuto prevedere che quel giovanotto che si era piazzato davanti ai carri armati, impedendo loro di procedere, sarebbe stato insignito, 21 anni dopo, del Nobel per la Pace, probabilmente quel giovane sarebbe sparito di lì a poco o magari sarebbe stato investito con qualche scusa di sbadataggine. Quel ragazzo, dunque, Liu Xiaobo, 54 anni, autore di una lunghissima e ininterrotta battaglia non violenta per i diritti umani, è stato riconosciuto meritevole del Nobel, mentre in patria è considerato un “criminale”, al punto che è stato condannato a 11 anni di carcere per “tentata sovversione dello Stato” e al momento della notizia del premio era ed è tuttora in prigione. Segno che 21 anni fa in Cina si lottava per i diritti umani e che la situazione non è cambiata di molto, malgrado la riverniciatura superficiale del regime e malgrado la dittatura sia scomparsa nell’Europa dell’Est. La moglie, Liu Xia, è stata subito messa agli arresti domiciliari e l’orchestra dei giornali di partito si è messa a suonare lo spartito della denigrazione del neo Premio Nobel e di tutti i dissidenti nell’evidente tentativo di contrastare quello che probabilmente sarà un processo che non potrà essere bloccato.
Il Premio Nobel per la Pace non sempre è stato assegnato a persone che davvero volevano la pace, ma questa volta la scelta è stata giusta. Ventuno anni, tuttavia, non sono passati invano, se è vero che una crepa si è aperta all’interno dello stesso establishment. All’indomani della scelta di Stoccolma – ma pare che l’iniziativa sia cominciata a circolare molto prima – è uscito allo scoperto un Manifesto che è un decalogo in otto punti a favore della libertà di espressione in Cina. Il Manifesto corre alla velocità di internet da un estremo all’altro della Cina, firmato da 23 personaggi tra intellettuali, giornalisti, docenti universitari, accomunati da due caratteristiche: non sono estranei all’establishment stesso in quanto membri del partito e però favorevoli alle libertà. Tra di essi figura Li Rui, ex segretario particolare di Mao Zedong (una volta si diceva Mao Tse Tung), colui che con la sua storia e coi suoi 93 anni difficilmente potrà essere imprigionato senza che l’eventuale provvedimento si ritorca contro.
Probabilmente, coloro che hanno firmato, pur avendo un rapporto organico con il partito, lo hanno solo formalmente, ma è proprio questo che dà più forza persuasiva al documento, che non parla solo di libertà di espressione, ma anche di libertà di associazione, di pubblicazione, di organizzazione, e chiede “di abolire gli organi di controllo sui media”, cioè la censura preventiva e successiva. L’uscita allo scoperto del Manifesto, comunque, rivela che in Cina c’è uno scontro all’interno del partito tra i militari e i politici, tra l’ala conservatrice e quella più liberale del potere o almeno una parte non proprio esigua di politici, se è vero che lo stesso premier, Wen Jiabao, viene tacciato di essere troppo liberale solo perché ha dichiarato che “la libertà di parola è indispensabile in ogni Paese”.
Uno dei firmatari del Manifesto ha scritto, rivolgendosi ad altri firmatari e riferendosi alle conseguenze della circolazione del documento: “Arriva l’inverno, farà freddo. Cercate di coprirvi”. Però, è innegabile che di fronte al conferimento del Nobel ad un cinese dissidente e perseguitato la battaglia per i diritti umani sarà destinata a fare passi da gigante e quanto più i conservatori serreranno le fila, tanto più le maglie della rete si allargheranno. Magari – perché no? – fino a travolgere gli stessi oppressori.
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