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24 November 2024
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STORIE di Gianni Farina

In Transilvania e Iasi, luoghi della Romania, alla ricerca dell’italianità confusa e smarrita

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Oramai tutti lo sanno, non amo volare. Ed è da quel lontano giorno in cui, i rotori intasati dalla rossa sabbia sollevata dal ghibli, il Fokker precipitò tra le dune del deserto libico a cinquanta miglia dall’oasi di Kufra nel sud della Libia.

Qualche ferito tra i venti passeggeri a bordo. Ma niente d’irrecuperabile. Ci vennero in soccorso, venti ore più tardi. E fu immensa gioia rivedere quel bastardo ingegnere eternamente insoddisfatto del lavoro dei suoi più diretti collaboratori.

Mannaggia, gli dissi.

Anche per oggi la dovrò sopportare. E così via.

Ho divagato, cari amici, prima di raccontarvi le vicende dell’ultimo mio viaggio da Zurigo a Iasi, via Vienna, estremo est della Romania  al confine con la Moldavia già parte dell’impero sovietico.

Dirvi come, da Vienna a Iasi, in volo a bassa quota sul bimotore Austrian Airlines, balliamo la samba al suono del Degheio, la melodia messicana che annuncia la fine, resa celebre da “Un pugno di dollari”, il  Western spaghetti di Sergio Leone degli anni sessanta.

E finita, mi dico. Ma nel frattempo, sbirciando dall’oblò, intravedo sotto di noi i palazzi della città,  tanto lindi da sembrarmi le regge  di un popolo eletto.

Mi accoglie Maurizio, un tipo tosto e assai curioso. All’ombra dei cinquanta e più anni, si accinge a costruire l’attività imprenditoriale nella terra ove tutto è inedito, un campo aperto da arare per l’oggi e le future generazioni.

Però, mi dico, Iasi è bella, pulita, il fascino misterioso delle città che ancora non hanno abbandonato il loro passato alla caotica modernità dell’oggi.

Quassù ci vivono poco meno di mille cittadini italiani: pensionati ai quali il basso caro vita da un certo valore alle prestazioni previdenziali italiane; commercianti, come l’amico Giulio, il veneziano che delizia i palati locali con le profumate pizze di cui vanta il merito tra gli ironici sorrisi di una moglie paziente poco attirata dalla battaglia del marito impegnato in una mano di  briscola parlata; studenti all’università di medicina, la branca odontoiatrica tra le più note in tutto l’est europeo, entusiasti della esperienza formativa  in Romania, in attesa di mettere la scienza acquisita al servizio del bel Paese; Lavoratori dell’edilizia e del genio civile al servizio delle grandi imprese italiane che stanno modernizzando l’antiquata rete dei trasporti locale.

Ci siamo spinti, con Maurizio, sino al confine moldavo nel bel mezzo del disordinato viavai di uomini e mezzi carichi delle più svariate mercanzie acquistate al vicino mercato e passate di mano nella confusione di svariati linguaggi di una terra di mezzo in cui prevale il russo, non solo linguisticamente vicino, da far dire all’amico romeno di Maurizio: mi sveglio ogni mattina felice di non udire il rombo del cannone dell’armata, russa o rossa, accampata poco più in là nella vicina Transnistria. Sorrido all’affermazione e ne comprendo il terrore. Pure se, per me, e in un lungo percorso storico, il rombo del cannone fu eternamente legato al canto rivoluzionario della Marsigliese.

Diverse riunioni. Piccole folle, desiderose di ascoltare le nuove da Roma con quel misto di nostalgia e rassegnazione che non ha fatto, tuttavia, smarrire il rapporto e l’amore per la nostra Italia.

Mi rendo conto delle difficoltà di dare una risposta esauriente al fenomeno migratorio, qua vissuto, anche per la vicinanza polacca e ungherese, come una minaccia all’integrità italo europea.

Per non parlare dello Ius Soli all’annuncio mio di aver scioperato il 24 ottobre scorso perché sia riconosciuta la nazionalità italiana al milione di giovani già profondamente italiani: per cultura e modi di pensare e agire.

All’auletta universitaria, gentilmente concessa dal rettorato, mi vengono in soccorso i due giovani futuri odontoiatri, ricchi di una nuova cultura unitaria europea aperta e solidale.

Anche nel più grave dissenso, non è mai mancato il rispetto, unito al coraggio – non sono parole mie – per aver difeso l’esperienza di governo, tra luci e ombre, di questo quinquennio.

Ritorno a Roma con molti dubbi e una certezza.

Ne valeva la pena andare all’incontro con una italianità in parte  sconosciuta che pure vive in un Paese che anela a fare interamente parte di una nuova e progredita Unione.

Ne vale sempre la pena, se l’intento è abbattere i muri e costruire i ponti: per i rispettivi popoli, per noi, per i nostri figli, per quelli che verranno.

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