Nel corso della 165a assemblea generale dell’Onu non si è parlato solo di impegni a favore della riduzione della povertà e della mortalità infantile e delle donne in gravidanza. Su questi temi sono intervenuti con proposte concrete sia la Germania (“i Paesi sottosviluppati pensino di più a svilupparsi e a contare di meno sugli aiuti internazionali”) che la Francia (“una tassa sulle transazioni finanziarie per combattere la povertà”). L’Italia non si è distinta in quanto a suggerimenti, anche perché, come tanti altri Paesi, ha dato meno di quanto ha promesso, però sta ponendo sul tappeto un tema reale e drammatico, sul quale molti sono d’accordo ma pochi fanno qualcosa per risolverlo: le mutilazioni sessuali. Come si sa, si tratta dei genitali femminili mutilati per obbedire a tradizioni radicate in molti Paesi, soprattutto in Africa ed essenzialmente per motivi religiosi. Ai quali, comunque, si aggiungono quelli che concernono più in generale la condizione femminile e più precisamente la condizione di inferiorità in cui è tenuta la donna. Le mutilazioni dei genitali femminili non sono solo un fatto di sofferenza gratuita ai danni delle adolescenti – sofferenza che spesso comporta infezioni e comunque menomazioni permanenti – ma impediscono anche alla donna di vivere con gioia e piacere, oltre che con serenità, la propria vita sessuale. Insomma, le mutilazioni sono una menomazione fisica e una menomazione psicologica e culturale, anche accettata, ma in definitiva subìta, sotto pena di conseguenze che vanno dalle minacce alla violenza e più in generale all’ostracismo dalla società familiare e locale. Il clamore suscitato a proposito delle mutilazioni dei genitali femminili non è solo di circostanza o di principio, ma è già una situazione che vivono e sperimentano sulla loro pelle le adolescenti e le donne immigrate. In Italia, si parla di una cifra che si aggira sulle 35 mila unità, ma il numero probabilmente è molto più elevato. In poche parole, si tratta di usanze che la famiglia importa dal Paese d’origine e che adotta forzosamente anche da noi dove, è il caso di precisarlo, le mutilazioni sono un fatto grave da codice penale, tanto più che a praticarle sono persone sprovviste di qualsiasi cultura ed esperienza medica, le cosiddette mammane che una volta in Italia praticavano gli aborti clandestini. Ebbene, riuscire a far adottare all’Onu una risoluzione che vieta le mutilazioni dei genitali è impresa difficile che l’Italia sta preparando da qualche tempo a questa parte. È difficile riuscirci perché oltre ad essere tanti i Paesi che le praticano o non le combattono, subentra una rete di scambi e di opportunità tra Paesi su una serie di altri temi o interessi. La task force italiana è rappresentata dall’ex presidente del Consiglio, Lamberto Dini, dall’ex commissaria europea, Emma Bonino e dai ministri in carica Mara Carfagna (Pari opportunità) e Franco Frattini (Esteri). Finora il risultato è che almeno 18 Stati africani, con in testa l’Egitto, approvano l’iniziativa italiana, sostenuta dalla maggioranza degli Stati europei, Svizzera in testa. La battaglia non è facile, né scontata, perché gli Stati membri dell’Onu sono 192, di cui molti a favore delle mutilazioni e tanti indifferenti, che possono appoggiare quelli a favore per scambio di favori. I commentatori più addentro alle cose dell’Onu prevedono che l’Italia possa farcela ad ottenere il quorum per la risoluzione entro quest’anno o, in caso di primo insuccesso, entro l’anno prossimo con ottime probabilità. Se così fosse, sarebbe una bella battaglia di civiltà vinta per merito del nostro Paese nella sua totalità.
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