Barack Obama ritirerà circa 50 mila dei 96 mila soldati dall’Iraq entro il mese di agosto di quest’anno.
Lo ha detto all’indomani della sua elezione e lo ha ripetuto nelle settimane scorse, confidando sull’esito pacifico del voto, ma dalle prime schermaglie a risultati ultimati ma non ancora ufficiali, forse la decisione del presidente americano potrebbe essere prematura.
Intendiamoci, in Iraq ci sono state elezioni democratiche, è la seconda volta dopo la caduta di Saddam Hussein. La prima volta fu nel 2005, tra attentati e fazioni in guerra tra di loro. Quelle elezioni furono una scommessa e il solo fatto che ebbero luogo fu un successo, funestato, tuttavia, dalle minacce dei sunniti che non andarono a votare. Negli anni che seguirono il generale Petraeus riuscì a parlare con i sunniti e a riportarli nell’alveo del dialogo, staccandoli dalle organizzazioni terroristiche.
Queste seconde elezioni (7 marzo scorso) hanno visto la partecipazione di tutti, dagli sciiti ai curdi e ai sunniti, e gli attentati sono stati molti di meno rispetto alla prima volta.
Che le elezioni siano state un successo, anche dal punto di vista della partecipazione, non è in discussione; che l’Iraq si stia avviando gradatamente, seppur lentamente, verso la democrazia, è altrettanto vero. Secondo i dati finali, a vincere sarebbe l’ex premier Iyad Allawi, leader della lista Iraqiya che puntava su un programma di laicizzazione dello Stato, con 91 dei 325 seggi.
Sarebbe stato sconfitto l’attuale premier Nouri al Maliki, leader della lista “Stato di diritto”, con 89 seggi. Quest’ultimo, che ha guidato l’Iraq e la transizione alla democrazia negli ultimi cinque anni, è uno sciita moderato. I curdi hanno avuto 43 seggi e Muqtada al Sadr, con Alleanza nazionale irachena, una lista confessionale che comprende anche fondamentalisti ed estremisti, ne ha ottenuti 40. Come si vede, tutte le etnie e le componenti laiche e religiose sono rappresentate, e ciò è un fatto positivo.
Tutto bene, dunque? Purtroppo no, perché gli sconfitti hanno gridato ai brogli elettorali. Prima del voto e anche durante, a denunciare i brogli era stato Allawi; ora, a scrutini completati, a denunciarli è stato l’attuale premier. Si dirà che si tratta di un “normale” gioco della diffidenza ed è questo l’augurio della comunità internazionale. Il fatto è che in Iraq si festeggia o si esprime contrarietà ancora sparando in alto, quando non si spara ad altezza d’uomo.
Le due liste con il maggior numero di seggi hanno ricevuto un mandato a lavorare per una coalizione che comprenda anche i curdi: è questo il percorso che consoliderebbe il cammino dell’Iraq verso la democrazia ed è questo il segnale lanciato da Iyad Allawi. Al Maliki, però, sembra non accettare la sconfitta e chiede il conteggio manuale dei voti. Che accetti la sconfitta o che si vada al conteggio non è un problema, l’importante è che a mente fredda ognuno lavori tenendo presente più che le ambizioni personali il fragile equilibrio della democrazia di quel Paese.
Non sappiamo se i 50 mila soldati saranno ritirati entro agosto o resteranno oltre, data la situazione ancora precaria; sappiamo però che il ruolo di mediatori politici degli americani non è affatto finito, anzi, diventa sempre più necessario.