Un libro scritto da Valentina Furlanetto sul panorama degli aiuti umanitari, buona parte dei quali vanno in pubblicità, in mantenimento delle infrastrutture e in stipendi al personale. Ma ci sono anche Ong che operano bene
E’ uscito da pochi giorni un libro scritto da Valentina Furlanetto, giornalista di “Radio24”, intitolato “L’industria della carità” (Chiarelettere, pp. 272) che, come dice il titolo, esamina il panorama delle organizzazioni non governative (Ong) e Onlus (Organizzazioni non lucrative), cioè il mondo del volontariato che si occupa di aiuti e progetti di sviluppo in tanti Paesi del pianeta. Il libro, lo diciamo subito, rivela che ci sono organizzazioni che funzionano e che offrono, in termini di aiuti, una grande parte di quello che ricevono, ma che ci sono organizzazioni che spendono in pubblicità e in personale molto di più di quanto arriva ai bisognosi. Rivela, inoltre, che ci sono volontari nel vero senso della parola e volontari che ricevono stipendi da nababbi. Cominciamo da alcuni cifre.
Nel mondo lavorano circa 50 mila Ong che ricevono finanziamenti per circa 10 miliardi di dollari all’anno, con un numero impressionante di volontari: circa 140 milioni. La solidarietà coinvolge uomini, mezzi e strutture: è diventata un’industria. Ci sono però “industrie” che funzionano bene e quelle che funzionano male. Prendiamo il caso di Unicef Italia, che ha un’entrata di 59 milioni di euro (dati 2011). Di questi, 37 milioni vanno alla sede internazionale. Ne restano 22, dei quali ben 13 milioni e 687 mila sono utilizzati per la “raccolta fondi, in pratica per pubblicizzarsi e raccogliere i soldi dei donatori”. Altri sei milioni se ne vanno per “oneri di natura generale” (affitti, consulenze, personale, eccetera), e siamo a 19 milioni e mezzo. Cosa resta per i progetti per l’infanzia? Appena 2 milioni e 796 mila euro. E meno male che resta qualcosa anche per i bambini, perché non sempre è così. Altro caso di un’organizzazione che spende in pubblicità più di quanto spenda per gli scopi per cui esiste è Greanpeace Italia: ha speso per “salvare oceani, balene, foreste, ambiente” 2 milioni e 349 mila euro, mentre per pubblicità e nuovi soci ha speso 2 milioni e 482 milia euro.
Siamo ancora nel limite del tollerabile, perché almeno qualcosa viene speso per le attività specifiche. Ed ora passiamo ai casi “critici”. La Ong Celim ha edificato in Bolivia su terreni appartenenti a terzi, cioè dove non si poteva costruire. La Ong Cestas ha messo in piedi un progetto di sostegno alla salute materno-infantile in Monzambico: solo il 20% è andato a buon fine. La Ong Ciss ha messo in atto un progetto di turismo sostenibile nel Governatorato del Fayoum: i risultati sono stati giudicati “irrilevanti”. Nel libro di Valentina Furlanetto si dice che il problema delle Ong italiane è quello della trasparenza.
Infatti, se le Ong straniere pubblicano on line i loro bilanci, quelle italiane non lo fanno o pubblicano solo quello sociale, da cui non si ricava nulla di chiaro e di preciso, al punto che la Corte dei Conti, nella relazione pubblicata nel luglio del 2012, dopo aver monitorato 84 progetti umanitari tra il 2008 e il 2010, scrive: “Soldi mai arrivati, progetti fermi o in ritardo da anni, infrastrutture realizzate su terreni di terzi o inesistenti, rendiconti spariti, fondi fermi in Italia da mesi, responsabili di progetti fantasma e irregolarità di ogni tipo nel rendiconto delle spese sostenute”. Valentina Furlanetto scrive che in situazioni di non chiarezza possono capitare dei “guai”, come quelli accaduti alla Onlus Vis e al Consorzio Agire (che raggruppa Save the Children, Action Aid, Cesvi, InterSos e altre ancora): nel 2010 si sono accorti di avere in cassa 8 milioni di euro e che hanno fatto? Invece di utilizzarli per opere benefiche, “li hanno affidati a tale Dino Pasta, amministratore unico di Rete Manager, che ha proposto investimenti in titoli obbligazionari. Peccato che si trattasse di una truffa in stile Madoff”.
La musica, però, cambia con Telethon: “Il rendiconto 2011 è esaustivo, chiaro e tempestivo”. Su 33 milioni di euro raccolti, solo 3 sono stati usati per la promozione e ben 24 sono stati destinati alla ricerca, mentre gli altri sei per il personale e per le spese di infrastrutture, affitti, eccetera. Anche Amnesty international può essere promossa: dei 7 milioni raccolti in Italia solo un terzo sono stati spesi per pubblicità e mantenimento. In linea generale si può dire che se non mandano lettere e bollettini di versamento la gente non offre, ma quando le spese per pubblicità e personale sono eccessive vuol dire che qualcosa non quadra.
I volontari sono tutti volontari? Ce ne sono di quelli che non vengono pagati, ma esiste anche una marea di gente che riceve uno stipendio. Quello di funzionari, manager e direttori francamente fanno concorrenza a quelli delle industrie private. Esempi?
Il direttore di Save the Children Usa guadagna 360 mila dollari all’anno; la buona uscita di Irene Kahn e Kate Gilmore (numeri uno e due di Amnesty international) è stata di 800 mila sterline (scoperta dl 2011). Secondo l’ex capo di Greenpeace Norvegia, i dirigenti ambientalisti “viaggiano in prima classe, mangiano nei migliori ristoranti e fanno la bella vita del jet set ecologista”. Scrive Valentina Furlanetto: “Ho visto Kofi Annan sorseggiare champagne in infradito su una spiaggia delle Maldive dopo una conferenza stampa sullo tsunami. Ho sentito operatori umanitari vantarsi di ‘aver sfruttato bene’ la situazione creata da una crisi locale per raccogliere fondi (…) Ho scoperto che alcune associazioni accantonano liquidità proprio come fanno le aziende. Ho appreso che talvolta pagano i loro vertici come i top manager delle multinazionali”.
A proposito del terremoto ad Haiti, “il 66% di tutte le donazioni che sono state fatte nel mondo non sono state investite per la gente di Haiti, m per il funzionamento delle Ong. Alcune hanno comprato fuoristrada da 40-50 mila dollari e il 20% delle donazioni è andato in stipendi del personale”. Secondo Le Monde, sugli oltre 5 miliardi di euro arrivati ad Haiti “la popolazione ha ricevuto un centesimo”. Per fortuna che non tutte le Ong e Onlus sono uguali.